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Secondo l'industria armatoriale italiana vietare l'accesso ai porti nazionali alle vecchie petroliere favorirà i vicini scali esteri, senza alcun beneficio per l'ambiente
Convegno a Genova sui traffici marittimi petroliferi, organizzato da Legambiente e WWF. Tra le misure preventive chieste dalle associazioni ambientaliste c'è l'allargamento della responsabilità in solido per tutti i soggetti coinvolti nel trasporto delle sostanze e nel viaggio della nave
27 marzo 2001
Confitarma, Unione Petrolifera e Confindustria chiedono una politica comunitaria forte e congiunta al fine di accelerare l'applicazione del doppio scafo attraverso un'iniziativa comunitaria in sede IMO. La richiesta è stata ribadita nel corso del convegno "I traffici marittimi petroliferi: regole, strumenti, soluzioni", organizzato da Legambiente e WWF, che si conclude oggi a Genova.
La confederazione degli armatori italiani ha ricordato come il consiglio dei ministri dei Trasporti dell'UE abbia già deciso che - in assenza di un accordo internazionale nell'ambito dell'International Maritime Organization, atteso per il prossimo aprile - procederà con l'adozione di un calendario di bando accelerato delle petroliere prive di doppio scafo dai porti comunitari. «L'armamento italiano - ha dichiarato il direttore generale della Confitarma, Luigi Perissich - non teme una politica di rinnovamento accelerato, purché rispettosa delle regole del mercato». «La flotta italiana - ha detto Perissich - è ai primi posti a livello mondiale nel rinnovamento della flotta cisterniera: mentre la quota mondiale delle navi cisterna dotate di doppio scafo è del 21%, la quota della flotta italiana è quasi doppia, presentandosi con un 35% (navi per il trasporto di prodotti petroliferi e chimici petroliferi con stazza superiore alle 600 tsl). Nella categoria delle grandi navi, con stazza superiore alle 20.000 tonnellate, tale quota raggiunge il 39%. Si tratta quindi di un impegno globale in cui la flotta di bandiera si presenta con credenziali più avanzate, ma anche di un processo che non può esaurirsi in tempi brevi».
Confitarma ha inoltre annunciato il suo impegno nella costituzione dell'IMEPA, un centro di promozione di iniziative nazionali di miglioramento della sicurezza e di tutela ambientale della navigazione, in collaborazione con le amministrazioni centrali e regionali e con i principali soggetti interessati, dai sindacati dei marittimi alle associazioni ambientaliste.
La confederazione dell'industria armatoriale italiana ha anche auspicato che nella prossima legislatura vengano migliorate le condizioni di competitività della flotta nazionale, vengano ratificati importanti accordi internazionali, come la convenzione sul regime di responsabilità e risarcimento per danni derivanti dal trasporto marittimo di prodotti chimici. Secondo Confitarma inoltre, nell'ambito della politica sui cambiamenti climatici, il governo dovrebbe promuovere progetti di riduzione delle emissioni del gas serra mediante il trasporto combinato marittimo, dovrebbe promuovere una forte iniziativa politica di formazione dei marittimi, nazionali e non, a partire dai temi riguardanti la sicurezza e la gestione ambientale, e dovrebbe attuare il rifinanziamento della rottamazione del naviglio cisterniero obsoleto.
Confitarma, ricordando che la navigazione - rispetto alla strada, alla rotaia e all'aereo - continua ad essere il sistema di trasporto più sicuro ed ambientalmente più compatibile, ha però sottolineato che l'inquinamento da incidenti marittimi colpisce il mare e le coste senza tener conto dei confini amministrativi (come le acque territoriali) e che, ad esempio, un incidente al largo della costa mediterranea francese può provocare un danno alle coste liguri.
Riferendosi inoltre al provvedimento del ministro dell'Ambiente, Willer Bordon, che ha vietato l'accesso alle vecchie petroliere a Venezia - normativa che sta per essere estesa ai porti dell'alto Adriatico e poi a tutti gli scali italiani (inforMARE del 16 marzo 2001) - la Confederazione Italiana Armatori ha specificato che, qualora il petrolio oggi destinato all'Italia fosse costretto a sbarcare nei porti dell'ex Jugoslavia, meno attrezzati di quelli italiani in termini di qualità e sicurezza, sulle coste italiane dell'Adriatico graverebbe un livello di rischio ancora maggiore.
Legambiente e il WWF hanno sottolineato il rischio ambientale che riguarda in particolare l'Italia, che è il Paese che "soffre" di più il traffico di petrolio nel bacino del Mediterraneo: il greggio che ogni anno viaggia intorno alle coste italiane è complessivamente di 123 milioni di tonnellate, che raggiungono circa 170 milioni di tonnellate se si considerano anche i prodotti della raffinazione. Questa cifra complessiva rappresenta circa la metà dell'intero traffico petrolifero del Mediterraneo, trasportata ogni giorno da circa 300 navi cisterna. Il nostro paese - hanno ricordato le associazioni ambientaliste - ha ben 15 porti petroli che raccolgono questo traffico, concentrato per il 65% nei quattro scali di Trieste, Genova-Multedo, Augusta-Priolo e Cagliari. Le rotte delle petroliere sfiorano zone di altissimo pregio naturalistico come le Bocche di Bonifacio, il Canale di Sicilia, l'alto Adriatico, gli arcipelaghi e il Santuario dei cetacei nel Mar Ligure.
Un altro fattore di rischio, secondo Legambiente e WWF, è dato dalle condizioni di insicurezza in cui versa la stragrande maggioranza della flotta petrolifera: i dati dell'Intertanko, l'associazione internazionale degli armatori indipendenti di petroliere, evidenziano che al 1° gennaio del 2000 la percentuale di cisterne a doppio scafo in servizio nel mondo era solo pari al 20,8 %, una percentuale destinata drammaticamente a scendere per quelle in servizio nel Mediterraneo. Sulla base di queste considerazioni, Legambiente e WWF hanno sottolineato che le normative sul traffico di petrolio non possono rimanere parziali e che occorrono interventi coordinati che affrontino complessivamente la prevenzione, il controllo, la capacità di intervento in caso di emergenza ed il congruo risarcimento ed il riconoscimento del danno ambientale, così com'è avvenuto nel '90 negli Stati Uniti con l'Oil Pollution Act.
«In questi 10 anni di applicazione dell'OPA '90 - ha detto Joseph J. Angelo, direttore della Protezione ambientale della Guardia Costiera statunitense - siamo riusciti a conseguire il risultato estremamente positivo di ridurre della metà gli incidenti di petroliere nei nostri mari. Il nostro sistema, basato su 43 regolamenti attuativi e 15 azioni amministrative ha portato, nel settore della prevenzione, ad imporre entro il 2015 il doppio scafo a tutte le petroliere che vogliano far scalo nei porti degli Stati Uniti e alla definizione di standard e controlli severi per la verifica delle caratteristiche di sicurezza delle navi nonché della preparazione e formazione degli equipaggi. Dal punto di vista della gestione dell'emergenza è stata creata una National State Force al livello federale con dei Centri di coordinamento nazionale. Sull'individuazione delle responsabilità e risarcimento del danno ambientale si sono responsabilizzati gli operatori preposti al trasporto identificando un soggetto qualificato, unico referente in caso di incidente. Sono stati migliorati e aumentati in modo significativo i limiti della responsabilità: da 150 a 1200 dollari per tonnellata, introducendo la responsabilità illimitata per colpa grave e deliberata negligenza e creando infine un fondo fiduciario (Oil Spill Liability) per l'ammontare di un miliardo di dollari per coprire i costi degli interventi immediati».
Koji Sekimizu, direttore della Marine Environment Division dell'International Maritime Organization (IMO), ha detto che, a seguito dell'incidente dell'Erika, «sarà accelerata l'eliminazione delle petroliere a scafo singolo» e che le misure messe a punto dall'IMO «necessitano di un'accurata preparazione che sarà completata in tempo per il prossimo MEPC (il sottocomitato dell'IMO sull'inquinamento ambientale) convocato per aprile. Queste modifiche entreranno in vigore nel settembre del 2002».
Ieri, nel corso della prima giornata del convegno, Stefano Lenzi, responsabile Mare del WWF Italia e Sebastiano Venneri della segreteria nazionale di Legambiente avevano ricordato il decalogo di richieste alle autorità internazionali e nazionali stilato dalle due associazioni ambientaliste, chiedendo che chi inquina paghi e paghi il giusto. «Nelle dieci regole per cambiare il mondo del trasporto marittimo di sostanze pericolose - avevano spiegato - chiediamo tra l'altro l'allargamento della responsabilità in solido per tutti i soggetti coinvolti nel trasporto delle sostanze e nel viaggio della nave (dall'armatore, al noleggiatore, al trasportatore), reclamiamo inoltre che si intervenga sullo IOPCF (il Fondo internazionale per l'inquinamento da idrocarburi, cui all'Italia aderisce, come secondo contribuente, insieme ad altri 70 paesi) perché sia riconosciuto il danno ambientale, oggi negato, e sia innalzato il massimale del risarcimento (che oggi copre solo danni economici diretti sino a circa 230 miliardi di lire). Inoltre, vogliamo avere risposte su alcuni aspetti di fondo e chiediamo che siano eliminate entro il 2005 le carrette dei mari (le cosiddette preMarpol, cioè costruite prima dell'entrata in vigore nel 1982 della Convenzione internazionale sull'inquinamento marino) che si renda effettivo con severi controlli il divieto esistente al lavaggio delle cisterne nell'Area Speciale del Mediterraneo, che si impedisca l'accesso nei porti alle navi che siano state fermate almeno una volta per violazione delle norme di sicurezza».
«Con il Fondo 1992 - aveva commentato Matteo Baradà, direttore dell'Istituto Idrografico e Mareografico e rappresentante del governo italiano nella Commissione di coordinamento dello IOPCF - si è teso a ridurre, se non a escludere del tutto, in ambito IOPCF ogni pagamento mirato al ripristino dei luoghi offesi e al risarcimento del danno ambientale. La vicenda occorsa alla Haven è stata emblematica, nella sua definizione finale, poiché si è conclusa con la riaffermazione da parte dell'assemblea del Fondo che nulla era dovuto per il danno ambientale, fatto che ha provocato un gravissimo vulnus al nostro ordinamento che lo contempla (nelle leggi n.979/82 per la difesa del mare e n. 349/86 istitutiva del ministero dell'Ambiente). Il governo italiano ha accettato una transazione di 117 miliardi e 600 milioni di lire, quando per l'analogo incidente della Exxon Valdez negli Stati Uniti, che non aderiscono al sistema IOPCF, venivano corrisposti dalla Esso al governo degli USA circa 5mila miliardi di lire. Lo Stato italiano ha comunque ribadito che il danno ambientale doveva considerarsi incluso nella CLC del '69, la convenzione che regola il Fondo. Un gruppo di lavoro recentemente costituito nell'ambito del Fondo '92 di IOPCF (cui partecipano paesi come Australia, Canada, la Danimarca, Norvegia, Olanda, Svezia e Regno Unito) sta ora esaminando possibili emendamenti al sistema di risarcimento dei danni causati dal versamento di idrocarburi in mare».
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