- La Corte di Giustizia europea ritiene che, sulla base del principio “chi inquina paga”, potrebbe essere il gruppo petrolifero francese Total a doversi fare carico dei danni causati dall'affondamento della petroliera Erika, avvenuto nel 1999 (inforMARE del 12 dicembre 1999), ma che in merito sarà l'autorità giudiziaria nazionale a doversi pronunciare.
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- La Corte ha ricordato che l'italiana Enel aveva concluso un contratto con la Total International relativo alla fornitura di olio pesante dal porto di Dunkerque a quello di Milazzo. Per tale trasporto la società francese, che aveva acquisito il carico dalla consociata Total Raffinage Distribution (diventata poi Total France), aveva noleggiato la petroliera Erika, battente bandiera maltese. A seguito dell'affondamento della nave, avvenuto al largo delle coste bretoni, che aveva causato un inquinamento del litorale francese, il Comune di Mesquer aveva convenuto in giudizio le imprese del gruppo Total per il rimborso delle spese sostenute a fronte delle operazioni di pulitura e bonifica del suo territorio costiero fondando la sua azione legale sulla direttiva europea sui rifiuti del 15 luglio 1975 modificata dalla decisione della Commissione UE n. 350 del 1996.
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- «L'esigenza di una trasposizione conforme dell'art. 15 della direttiva europea sui rifiuti - ha spiegato la Corte - può comportare che il fabbricante del prodotto che ha generato rifiuti sopporti il costo del loro smaltimento causato dallo sversamento accidentale di idrocarburi in mare».
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- Secondo l'amministrazione comunale francese, infatti, gli idrocarburi sversati in mare costituivano rifiuti ai sensi della direttiva e il costo del loro smaltimento doveva quindi essere imputato alle società Total International e Total France, rispettivamente nella loro qualità di «precedenti detentori» o di «produttore del prodotto causa dei rifiuti».
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- Per dirimere la vicenda la Corte di Cassazione francese aveva chiesto lumi alla Corte di Giustizia europea sull'interpretazione delle disposizioni comunitarie applicabili. Innanzitutto il tribunale francese aveva chiesto alla Corte lussemburghese se l'olio pesante sversato in mare a seguito a un naufragio debba essere qualificato come rifiuto ai sensi della direttiva. La Corte di Giustizia ha stabilito che l'olio pesante trasportato dalla nave non costituisce un rifiuto nei limiti in cui esso è sfruttato o commercializzato a condizioni economicamente vantaggiose e può essere effettivamente utilizzato come combustibile senza necessitare di preliminari operazioni di trasformazione, ma che - tuttavia - «gli idrocarburi sversati nel caso di un naufragio che risultino miscelati ad acqua nonché a sedimenti e che vadano alla deriva lungo le coste di uno Stato membro fino a raggiungerle, costituiscono sostanze che il loro detentore non aveva l'intenzione di produrre e delle quali egli si disfa, ancorché involontariamente, in occasione del loro trasporto, cosicché devono essere qualificate come rifiuti ai sensi della direttiva».
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- Inoltre la Corte di Cassazione francese aveva chiesto alla Corte di Giustizia delle comunità europee se, nel caso del naufragio di una petroliera, il produttore dell'olio pesante sversato in mare e/o colui che lo ha venduto e ha noleggiato la nave che trasportava tale sostanza possano essere tenuti a farsi carico del costo connesso allo smaltimento dei rifiuti così generati, anche qualora la sostanza sversata in mare fosse trasportata da terzi, in particolare da un vettore marittimo. La Corte di Giustizia ha sottolineato innanzitutto che, «nelle circostanze del caso di specie, la direttiva sui rifiuti prevede, conformemente al principio “chi inquina paga”, che tale costo debba essere sostenuto dai “precedenti detentori” o dal “produttore del prodotto causa dei rifiuti”» ed ha osservato che, «in occasione di un naufragio, il proprietario della nave che trasporta idrocarburi ne è in possesso immediatamente prima che divengano rifiuti. Pertanto, il proprietario della nave può essere considerato come colui che ha prodotto tali rifiuti ed essere qualificato per ciò stesso come “detentore” ai sensi della direttiva». «Tuttavia - ha precisato la Corte europea - il giudice nazionale, alla luce degli elementi la cui valutazione è di sua esclusiva competenza, può considerare che colui che ha venduto idrocarburi e noleggiato la nave che li ha trasportati ha “prodotto rifiuti”, qualora constati che detto venditore-noleggiatore ha contribuito al rischio che si verificasse l'inquinamento determinato dal naufragio, in particolare se si è astenuto dall'adottare provvedimenti diretti a prevenire un tale evento, come quelli relativi alla scelta della nave. La Corte reputa, a tale riguardo, che la direttiva sui rifiuti non osti a che gli Stati membri, in applicazione delle convenzioni sulla responsabilità civile e FIPOL, prevedano limiti e/o esclusioni di responsabilità a favore del proprietario della nave e del noleggiatore nonché l'istituzione di un fondo come il Fondo internazionale per il risarcimento dei danni dovuti a inquinamento da idrocarburi (FIPOL). Tuttavia, se i costi di smaltimento dei rifiuti non sono o non possono essere assunti dal FIPOL e, in applicazione dei limiti e/o delle esclusioni di responsabilità vigenti, il diritto nazionale di uno Stato membro, compreso quello derivante da convenzioni internazionali, impedisce che tali costi possano essere sostenuti dal proprietario della nave e dal noleggiatore di quest'ultima, sebbene tali soggetti debbano essere considerati come “detentori”, un siffatto diritto nazionale dovrà allora consentire che i costi in questione siano sopportati dal “produttore del prodotto causa dei rifiuti” così sversati. Nondimeno, conformemente al principio “chi inquina paga”, il produttore potrà essere tenuto a farsi carico di tali costi solo se, mediante la sua attività, ha contribuito al rischio che si verificasse l'inquinamento prodotto dal naufragio della nave».
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