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Il pool di manodopera è il cuore dell'organizzazione del lavoro nei porti europei
Dibattito a Palazzo San Giorgio sullo scenario del lavoro portuale in Europa, in Italia e a Genova
16 luglio 2010
L'organizzazione del lavoro portuale in Europa è assai diversificata come molto diverse sono le forme di governance degli scali, le modalità di finanziamento delle infrastrutture portuali ed altri aspetti cruciali della vita socio-economica dei porti. «Pensare ad un sistema omogeneo del lavoro portuale in Europa - è l'opinione del presidente dell'Autorità Portuale di Genova, Luigi Merlo - sembra essere quasi un'utopia».
Le molteplici sfaccettature del lavoro portuale sono state sviscerate questo pomeriggio a Palazzo San Giorgio, sede dell'ente portuale genovese, nel corso secondo appuntamento del programma di letture sul sistema marittimo-portuale sul tema “Il lavoro nei porti d'Europa” organizzato dal Genoa Port Center (GPC) e dal Gruppo Giovani Riuniti (GRR) in collaborazione con l'Autorità Portuale.
Lo scenario generale è stato presentato da Theo Notteboom, professore e presidente dell'ITMMA (Institute of Transport and Maritime Management Antwerp) dell'Università di Anversa che ha illustrato i temi essenziali del proprio rapporto “Dock labour and port-related employment in the European seaport system” elaborato per conto dell'European Sea Ports Organisation (ESPO).
Nei porti europei - ha detto Notteboom - il lavoro portuale ha un peso molto differente e in alcuni casi arriva addirittura al 70% dei costi complessivi o al 50% nel solo comparto dei container. Secondo il docente belga è comunque assolutamente sbagliato «prendere un sistema di organizzazione da un porto e importarlo in altri».
Nei porti europei, però, un tratto comune alle differenti forme di lavoro portuale esiste ed è quello del “pool di manodopera”, una struttura organizzativa - hanno concordato i relatori - che è uno dei nodi chiave della catena logistica portuale.
«Quella del pool, in forma moderna - ha rilevato il senatore Enrico Musso, docente di Economia dei trasporti all'Università di Genova - è una formula vincente». «In tutti i porti europei - ha confermato il console della Compagnia Unica-Culmv Paride Batini, Antonio Benvenuti - si è affermato un pool che fa flessibilità». Il console ha però sottolineato come in Italia questa forma di organizzazione non trovi corrispondenza nell'articolo 17 della legge 84/94 che disciplina la fornitura del lavoro portuale temporaneo. Benvenuti ha evidenziato come nei porti italiani la situazione differisca da scalo a scalo e come siano in atto forme di deregulation, ad esempio a Trieste - ha precisato - «dove ci sono precari che fanno lavoro portuale».
Per l'Autorità Portuale di Genova il tema del lavoro portuale è stato affrontato dal segretario generale dell'ente, Giambattista D'Aste, e da Laura Ghio. Il rapporto di Notteboom tratta dell'organizzazione del lavoro portuale in diverse nazioni europee, ad eccezione dell'Italia per mancanza di un input («come Assoporti - ha ammesso laconicamente D'Aste - abbiamo brillato per assenza»). Il segretario generale dell'authority portuale ha rimarcato le sostanziale differenza tra lavoro portuale e lavoro interinale: «secondo noi - ha affermato - il lavoro portuale è qualcosa di diverso da un'agenzia di lavoro somministrato». Pienamente d'accordo Enrico Musso, che - ha precisato - a differenza di quanto avviene nei settori economici in cui il lavoro interinale ha una funzione, il lavoro portuale è fornito ad un numero limitato di imprese ed operatori la cui attività segue per lo più analoghi trend di sviluppo. Nei porti - ha confermato Musso - «il modello del lavoro interinale non funziona».
Più generale l'analisi di Sergio Bologna, docente di storia del movimento operaio e consulente di logistica, che si è detto scettico sull'odierna utilità delle politiche per il lavoro quando attualmente «la soluzione contrattuale appare la via migliore».
Parlando di flessibilità del lavoro e proponendo di allargare questa formula «anche ad altri settori del porto, come quello industriale», D'Aste ha sottolineato come il lavoro portuale a Genova sia stato particolarmente colpito dalla crisi, per la quale «ha lasciato qualcosa come 15 milioni di euro di fatturato». «Cosa sarebbe successo - si è chiesto - nel settore dei terminalisti?». «La crisi a Genova - ha aggiunto Laura Ghio - si è scaricata quasi esclusivamente sul lavoro portuale». Dal moderatore dell'incontro, Gian Enzo Duci, vicepresidente di Assagenti e rappresentante del Gruppo Giovani Riuniti, è giunta una parola a difesa delle altre categorie di operatori del comparto marittimo-portuale che - ha ricordato - hanno sostenuto anch'essi il notevole impatto della crisi.
Il tema del lavoro portuale è particolarmente “caldo” a Genova a causa della richiesta del gruppo armatoriale napoletano Grimaldi di operare in autoproduzione al Terminal San Giorgio, dove approda con le proprie navi e con quelle della controllata Finnlines. Merlo ha espresso la propria «contrarietà all'istituzione dell'autoproduzione». «Una grande compagnia come la Grimaldi - ha osservato il presidente della Port Authority - non può non considerare l'impatto della sua richiesta». Secondo Merlo, concedere l'autoproduzione significherebbe sancire «un principio che sarebbe devastante per il sistema portuale italiano».
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