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Pascal Lamy: gli attuali metodi statistici non sono più idonei per valutare il commercio internazionale
«Gli esperti di indagini statistiche - ha rilevato il direttore generale della WTO - sanno benissimo che “se si chiede alla persona sbagliata, si otterrà la risposta sbagliata”. Allo stesso modo, se si analizza un fenomeno con “misurazioni” sbagliate, si giunge a conclusioni sbagliate»
15 ottobre 2010
inforMARE - Oggigiorno non ha quasi più senso stabilire quale sia la nazione in cui è stato realizzato un prodotto. Lo ha evidenziato il direttore generale del World Trade Organization (WTO), Pascal Lamy, in un intervento odierno presso il Senato francese in occasione dello svolgimento di un seminario di statistica.
Secondo Lamy, è necessario esaminare da una diversa angolazione due dei concetti che stanno alla base del commercio internazionale e delle statistiche sulla bilancia dei pagamenti, «vale a dire - ha spiegato - la nozione di Paese di origine e il concetto di residente opposto a quello di non residente». «Nel diciannovesimo secolo, quando Ricardo ha sviluppato quelle che sarebbero diventate le fondamenta della teoria del commercio internazionale - ha ricordato - i Paesi esportavano ciò che producevano. Di fatto la rivoluzione industriale si è radicata in Paesi che avevano miniere di carbone e minerale di ferro. Un imprenditore portoghese che importava una locomotiva dall'Inghilterra sapeva che tutto, dall'acciaio delle ruote al manometro della caldaia, proveniva dal Regno Unito. Allo stesso modo, un club inglese che importava vino di Porto per i suoi associati poteva essere sicuro che proveniva dal Portogallo. Oggi il vino Porto è ancora di origine portoghese. Grazie ai progressi compiuti in materia di denominazioni di origine, l'importatore inglese oggi è di fatto più certo di questo che il suo omologo del diciannovesimo secolo. Tuttavia, il concetto di Paese di origine per i prodotti è gradualmente diventato obsoleto poiché le varie operazioni, dalla progettazione del prodotto alla fabbricazione dei componenti, dall'assemblaggio al marketing, si sono disseminate in tutto il mondo creando catene di produzione internazionali».
«Oggi - ha sottolineato Lamy - sono sempre di più i prodotti “Made in the World” rispetto a quelli “Made in the UK” oppure “Made in France”. Voi potreste dire casomai: “Made in China”. Questo è ciò che oggi molte persone ritengono cadendo in errore. Ciò che noi chiamiamo “Made in China” viene infatti assemblato in Cina, ma ciò che crea il valore commerciale del prodotto deriva dai numerosi Paesi che stanno a monte del suo assemblaggio in Cina nella catena del valore globale, dalla sua progettazione alla fabbricazione dei diversi componenti, all'organizzazione del supporto logistico della catena nel suo complesso. In altre parole, la produzione di beni e servizi non può più essere considerata “monolocalizzata”, ma piuttosto, “multilocalizzata”. Di conseguenza, la nozione di “delocalizzazione”, che aveva senso in passato quando ci si riferiva alla produzione di un prodotto o di un servizio in un unico luogo, perde molto del suo significato. Se, per motivi di economie di scala, trasferisco un segmento della catena di produzione ed altri, per le medesime ragioni, li trasferiscono nella mia zona, l'impatto sul mio valore aggiunto totale, ad esempio - sintetizzando - sul mio posto di lavoro, può essere neutro, negativo o positivo; ed oggi è questo equilibrio a cui dobbiamo guardare con molta attenzione. Se, in questo contesto, continuiamo a basare le nostre decisioni di politica economica su statistiche incomplete, la nostra analisi potrebbe essere erronea e portaci a soluzioni sbagliate».
«Per esempio - ha precisato il direttore generale della WTO - ogni volta che un iPod è importato negli Stati Uniti, la totalità del suo valore dichiarato in dogana (150 dollari) viene attribuita interamente come se si trattasse di un 'importazione dalla Cina, contribuendo ad accrescere un po' di più lo squilibrio commerciale tra i due Paesi. Ma se guardiamo all'origine nazionale del valore aggiunto incorporato nel prodotto finale, notiamo che una quota significativa corrisponde alla reimportazione da parte degli Stati Uniti e il resto deve essere imputato al saldo bilaterale con il Giappone o con la Corea in funzione del contributo di questi Paesi a tale valore aggiunto. In realtà, secondo i ricercatori americani, meno di 10 dei 150 dollari effettivamente derivano dalla Cina e tutto il resto è solo riesportazione. In tali circostanze, una rivalutazione dello yuan, un tema che è molto in voga in questi giorni, avrebbe solo un modesto impatto sul prezzo di vendita del prodotto finale e probabilmente non ripristinerebbe la competitività di prodotti concorrenziali realizzati altrove. Allo stesso modo, la distorsione statistica creata attribuendo l'intero valore commerciale all'ultimo Paese d'origine può alterare il dibattito politico sulle origini degli squilibri e condurre ad un errore e quindi, a decisioni controproducenti. Tornando al caso emblematico del deficit bilaterale tra la Cina e gli Stati Uniti, una serie di stime basate sul reale contenuto nazionale lo ridurrebbero della metà, se non di più. Questa impressione è confermata da altri dati se accettiamo di “debilateralizzarli”: se guardiamo al deficit commerciale degli Stati Uniti con l'Asia, piuttosto che al suo deficit bilaterale con la Cina, non si può che constatare una notevole stabilità nel corso degli ultimi 25 anni, prossima al 2 o al 3% del prodotto interno lordo degli Stati Uniti».
«Per quanto riguarda l'impatto sull'occupazione, comprensibilmente un tema piuttosto sensibile in questi tempi di crisi economica - ha proseguito Lamy - ancora una volta il risultato può essere sorprendente. Tornando al caso dell'iPod, un altro studio degli stessi autori stima che, su scala globale, alla sua fabbricazione siano riconducibili 41.000 posti di lavoro nel 2006, di cui 14.000 situati negli Stati Uniti, 6.000 dei quali corrispondenti ad addetti specializzati. Dal momento che i lavoratori americani sono più qualificati e meglio pagati, hanno guadagnato oltre 750 milioni di dollari, mentre meno della metà, soltanto 320 milioni, è andato ai lavoratori all'estero. In questo esempio lo studio dei vari casi ha dimostrato che il Paese che innova guadagna la maggior parte dei profitti, ma le statistiche tradizionali tendono a concentrarsi su l'ultimo anello della catena, quello che - in ultima istanza - risulta essere quello che riceve meno. Non fraintendetemi, non sto dicendo che questo è sempre il caso e che le delocalizzazioni creano sempre più posti di lavoro di quelli che distruggono. Avremo certo la possibilità di discuterne. Ho semplicemente voluto mettere in evidenza i paradossi e le incomprensioni che sorgono quando i nuovi fenomeni vengono misurati con metodi vecchi. Gli esperti di indagini statistiche sanno benissimo che “se si chiede alla persona sbagliata, si otterrà la risposta sbagliata”. Allo stesso modo, se si analizza un fenomeno con “misurazioni” sbagliate, si giunge a conclusioni sbagliate».
Secondo Lamy, è quindi necessario riprendere in esame le modalità statistiche con le quali si misura il commercio estero alla luce delle nuove sfide poste dalla globalizzazione. Una sfida - ha rilevato - «che non è riservata esclusivamente agli esperti di statistica, ma che è anche, e soprattutto, rivolta ai decisori responsabili della politica nazionale ed internazionale». (iM)
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