- Due inviti rivolti a tutti in vista delle prossime decisive sfide per il futuro dei cantieri navali del gruppo Fincantieri e dei suoi dipendenti.
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- Per favore: non manifestiamo la nostra solidarietà ai lavoratori dell'azienda. È un sentimento di vincolo nobile, ma di cui è troppo facile riempirsi la bocca. Non arreca alcun giovamento alla situazione di crisi e non è nemmeno esteso agli addetti dell'indotto, la vera prima vittima silenziosa dello stato di sofferenza del gruppo.
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- Cortesemente: per il salvataggio degli stabilimenti e dei posti di lavoro non proponiamo ancora una volta strategie note e in parte già perseguite, come quella che punta alla ricerca e all'innovazione che senz'altro produce risultati ma non scongiura il peggio, o quell'altra che invoca incentivi e sostegni alla cantieristica, per i quali servono soldi che non ci sono.
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- Non proponiamo ricette pur sapendo che alla fine non faremo altro che riscaldare la minestra.
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- La cantieristica italiana così come l'intera navalmeccanica europea hanno di fronte sfide che per essere vinte necessitano ovviamente di tecnologia avanzata e di nuovi progetti, innovazioni che però da sole non sono in grado di colmare il gap competitivo garantito ai cantieri concorrenti dell'Asia da un costo del lavoro inferiore. I cantieri occidentali puntano all'eccellenza, ma gran parte del lavoro va ad Oriente.
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- Abbassare i costi di produzione ai livelli dei concorrenti orientali non è possibile per ragioni ovvie, che tuttavia per l'UE non sono così lampanti. Le alternative sono poche. O si percorre la strada degli USA, che porta ad abbandonare gran parte della produzione civile per concentrarsi su quella militare (a carico dello Stato), oppure si segue la direzione intrapresa in Nord Europa con la cessione di cantieri ai concorrenti asiatici, culminata nel passaggio del gruppo Aker Yards (ora STX Europe) sotto il controllo della sudcoreana STX, o attraverso la chiusura di stabilimenti oppure ancora con la loro conversione ad altre produzioni industriali.
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- Questo è il deludente risultato della politica per la navalmeccanica attuata dalle nazioni occidentali e soprattutto dall'Unione Europea. Quest'ultima continua pervicacemente a concentrare i suoi strali sulle attività di dumping attuate dai cantieri asiatici vendendo navi agli armatori esteri ad un prezzo inferiore a quello applicato normalmente nello stesso paese esportatore. Secondo l'UE, invece, non c'è concorrenza insostenibile per i cantieri occidentali se il minor prezzo proposto dai cantieri asiatici è determinato dai minori costi del lavoro o dalla maggiore produttività. Un principio questo - è bene evidenziarlo – enunciato senza porsi troppe domande sul come e perché i costi dei cantieri del Far East sono meno elevati e sul come e perché i loro stabilimenti sono più produttivi di quelli dei rivali europei.
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- Nel nome di un liberismo esasperato l'UE ha chiuso tutti e due gli occhi sui motivi storici, economici, politici, sociali e ambientali che consentono agli stabilimenti asiatici di avvantaggiarsi di costi del lavoro irrisori rispetto agli standard europei ed americani.
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- Se in altri comparti industriali sovente sono state alzate barriere che vengono qualificate tout court “protezionistiche”, il settore navalmeccanico è stato lasciato in balia di se stesso, magari penalizzandolo con rigidi vincoli nei confronti del mercato interno ed estero.
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- Perché, ci chiediamo, altri settori - aperti come la navalmeccanica ai rigori della globalizzazione - sono stati trattati differentemente? Perché, per rimanere in ambito navale, all'industria armatoriale sono state concesse misure, come quelle proprie dei Registri internazionali, che consentono risparmi sui costi per gestire le navi e che - adottate per evitare la migrazione delle flotte verso bandiere di convenienza - sono assimilabili a disposizioni protezionistiche? Perché, in qualche misura, sono state poste in atto norme per salvaguardare i posti di lavoro dei marittimi europei minacciati dalla dilagante diffusione del personale extracomunitario?
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- Perché, infine, si è fatto così poco per la salvaguardia della navalmeccanica europea? La sensazione è che il settore - squalificato come “industria pesante” - sia stato “dato per perso” in partenza.
- Forse ora è tardi. È comunque doveroso chiedere all'Italia e all'Unione Europea se intendono garantire un futuro alla loro cantieristica, pubblica e privata, ancora attiva e produttiva. Noi confidiamo in una risposta positiva e seguita da adeguate iniziative.
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- Non trinceriamo la cantieristica italiana ed europea dentro un fortino indifendibile. Esponiamola alla più aperta e severa concorrenza, ma facciamolo con criterio per evitare che non riesca a sopravvivere il tempo necessario per giungere al futuro equo mercato mondiale globalizzato.
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- Ancora un invito. Non facciamo che questa diventi la bandiera di quella nazione che - dicono - confinerebbe con Fantasilandia e Topolinia. Come sostengono che si chiami? Ah, sì: Padania.
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- Bruno Bellio
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