- L'Italia dei porti ha certo bisogno urgente di riforme, ma ha anche e specialmente bisogno di ripensare le sue funzioni in un mercato internazionale dei trasporti via mare che è caratterizzato da forti elementi di fragilità finanziaria e che talora richiede agli scali marittimi e ai sistemi logistici investimenti infrastrutturali che spesso non sono in grado di affrontare. È una delle indicazioni scaturite oggi a Trieste dalla sessantacinquesima assemblea di Federagenti, la federazione degli agenti marittimi italiani, che ha affrontato le problematiche del settore presentando anche una ricerca, messa a punto dal professor Sergio Bologna, sulle criticità di un settore caratterizzato da un ingresso massiccio di fondi di private equity, americani e asiatici, che stanno subentrando a molte banche come “partner” finanziari delle compagnie di navigazione.
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- In questo scenario, che è il riflesso di una situazione economica e sociale complessa e fragile a livello mondiale - ha sottolineato il presidente di Federagenti, Michele Pappalardo - l'industria marittima in Italia continua a confermare caratteristiche di eccezionale vitalità, procedendo in controtendenza anche in questi anni di crisi, generando occupazione, ricchezza e migliorando costantemente i suoi standard qualitativi. Proprio in questa ottica Pappalardo ha rilevato la contraddizione fra la struttura operativa della filiera marittima e una politica che continua a condannarla in una sorta di limbo senza tempo, rinviando sine die il momento di affrontare le grandi problematiche di sviluppo ma anche di sopravvivenza del settore portuale. Il presidente di Federagenti, nella sua relazione che pubblichiamo nella rubrica “Forum dello Shipping e della Logistica”, ha rimarcato come ogni progetto di riforma portuale, da vent'anni a questa parte, sembri essere più un aggiustamento del passato che una proiezione nel futuro.
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- Intervenendo all'assemblea di Federagenti, la presidente della Regione Friuli Venezia Giulia, Debora Serracchiani, che è anche responsabile trasporti del Partito Democratico, ha confermato che «la riforma della portualità è una necessità, un dovere rispetto ad un sistema che deve crescere a favore dell'intero Paese», una riforma - ha precisato - che «deve basarsi su punti chiave quali razionalizzazione, visione nazionale in un'ottica europea, semplificazione e integrazione». «Tutto ciò - ha spiegato - significa riconoscere come strategici 14 porti in Italia, rivedendo anche governance e competenze delle Autorità Portuali tenendo presente che le esigenze interne devono rispettare quelle dell'Europa e dei relativi corridoi». «Il Piano strategico nazionale - ha rilevato la presidente della Regione - dovrà quindi proporre una visione complessiva per la governance ma anche per gli interventi, rivedendo a questo proposito l'autonomia finanziaria dei porti e concertando gli investimenti che l'Italia vorrebbe fossero esentati dal Patto di stabilità nel momento in cui sono fondamentali per la crescita». «Infrastrutture, trasporti e logistica - ha concluso Debora Serracchiani - dovranno dialogare perfettamente per creare una piattaforma logistica del Mediterraneo in un momento in cui non si può prescindere dall'affrontare queste sfide straordinarie».
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- Nel corso dell'assemblea il presidente Pappalardo ha letto anche un messaggio del ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Maurizio Lupi, che ha confermato l'intenzione del governo «di ridisegnare una funzione strategica di pianificazione del sistema portuale», rompere una visione «autosufficiente» e separata dei porti di cui va snellito «il carico burocratico». «Trasformazioni necessarie - ha osservato il presidente di Federagenti - visto che i cambiamenti del settore sono così traumatici da prospettare per normale una situazione sostanzialmente differente da quella attuale caratterizzata da cambiamenti tanto profondi quanto profonda è la fragilità della ripresa economica e della filiera nel suo insieme».
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- «Il 2014 - ha ricordato Pappalardo - ha già registrato l'entrata in servizio sulle rotte da e per il Far East di 14 nuove navi da oltre 10.000 teu di portata e altre 47 scenderanno in campo entro fine anno. Nel 2013 complessivamente erano state consegnate 34 Ultra Large containerships e 51 nel 2012. Quest'anno è già stata schierata, considerando anche le navi di 8.000 teu, una potenza di fuoco di 339.329 teu. Con una geografia dei traffici ad assetto variabile, con equilibri delicati della globalizzazione e con fenomeni di concentrazione nel trasporto marittimo che comunque minacciano di determinare il successo o il declino di importanti aree geografiche e produttive - ha affermato il presidente di Federagenti - sta anche abbattendo i miti in cui ci siamo cullati per decenni. Ad esempio, come evidenzia lo studio del professor Bologna, quello dei porti del Nord Europa. L'entrata in servizio nel settore dei container delle navi giganti da 16.000 e 18.000 teu che nel Northern Range possono essere ospitate da Le Havre, Rotterdam, Anversa e Bremerhaven, ma non da Amburgo, sta mandando in crisi i cicli operativi dei grandi terminal e dell'intera filiera logistica. Non solo: ha innescato una spirale di sconti, minando i margini di redditività dei porti.
- In Nord Europa si registra poi un eccesso di offerta di infrastrutture portuali determinato, oltre che dalle attese prodotte dal gigantismo navale, da previsioni di traffico troppo ottimistiche. Il porto di Amburgo sino all'altro ieri si muoveva con un orizzonte 2025 di 25 milioni di teu, a gennaio ha presentato uno studio nel quale tale previsione era ridimensionata non poco: 15 milioni di teu, un taglio del 40%. Ma a preoccupare, come emerge dall'analisi presentata durante l'assemblea di Federagenti - ha proseguito Pappalardo - è la fragilità finanziaria del settore e il rischio di una gigantesca bolla alimentata dalla progressiva perdita di ruolo delle grandi banche nordeuropee che da sempre hanno finanziato l'investimento in nuove navi, nello sviluppo rapidissimo delle flotte e dall'affermarsi di nuovi investitori speculativi, come i fondi di private equity, di fatto oggi (in virtù di un processo di riacquisto dei debiti e di conversione degli stessi in azioni) proprietari di una larga fetta dello shipping mondiale. Si calcola che le istituzioni finanziarie siano esposte nel settore per oltre 475 miliardi di dollari e che, mentre gli equity fund americani e asiatici continuano a ordinare nuove navi puntando sui prezzi bassi delle stesse, solo nei prossimi due anni le banche dovranno rifinanziare 35 miliardi di euro di prestiti, 80% dei quali a carico di banche europee».
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- È stato evidenziato che nel settore, con gli istituti di credito europei in ritirata, emergono soggetti come la DBS di Singapore, la Overseas Chinese Banking Corp, la Maybank malese, ma anche le istituzioni cinesi, la China Development Bank, l'Industrial and Commercial Bank of China, il China Merchants Bank Leasing, e le agenzie di credito alle esportazioni, cinesi e coreane. Sul fronte dei Paesi del Golfo, Qatar National Bank, Arab Banking Corp ed altre, magari sotto la regia di Deutsche Bank, offrono un supporto finanziario alle compagnie marittime locali, come UASC. E per completare il quadro va ricordato che il private equity ha pompato 13 miliardi di dollari nello shipping nel 2013, a fronte di quasi zero nel 2007. Il tutto a fronte di noli che sono rimasti depressi, anche se si prevede un leggero miglioramento nel corso del 2014, e di una struttura di governance delle grandi compagnie a dir poco anomala. Basti pensare che tutti i tre soci della P3, l'alleanza fra Maersk, MSC e CMA CGM bocciata in queste ore dalle autorità cinesi antitrust, sono aziende familiari, alla lunga difficilmente compatibili con la struttura di governance e con la trasmissione di know-how di un'azienda di dimensioni mondiali.
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- In occasione dell'assemblea di Federagenti il professor Sergio Bologna ha presentato il proprio studio “Accettare la “nuova normalità” in cui trae considerazioni sull'attuale fase del mercato marittimo-portuale. Nuova “normalità” che - come ricorda Bologna citando guru dell'economia come l'ex segretario al Tesoro americano Larry Summers, Paul Krugmann, l'editorialista del “Financial Times” Martin Wolf e il suo collega Wolfgang Munchnau - assai probabilmente per l'Occidente capitalistico significherà un periodo di lunga stagnazione e di deflazione: «mentre tutti si aspettano un ritorno alla normalità, con una ripresa, prima o poi, dell'economia, tale ripresa potrebbe non esserci in alcun modo e la stagnazione registrata negli ultimi cinque anni potrebbe diventare la nuova normalità (the new normal) dei prossimi decenni per le economie occidentali».
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- Nel suo studio Bologna lancia pesanti accuse alla gestione del sistema portuale italiano, denunciando non il fallimento della legislazione che governa il settore quanto piuttosto la cattiva amministrazione dei porti sia da parte pubblica che privata. Riguardo alla riforma della legislazione portuale, Bologna ha ricordato che «si è cominciato a dire ad un certo punto che i porti italiani hanno perso competitività per colpa dell'84/94 (la legge di riforma portuale, ndr). Ma - si è chiesto Bologna - su che basi si fanno affermazioni del genere? Nel West Med sia in termini di volumi sia in termini di risultati di gestione non mi sembra che Genova e La Spezia stiano molto peggio di Valencia, di Barcellona o di Marsiglia. Crescere nei volumi grazie al transhipment e accumulare centinaia di milioni di deficit com'è avvenuto in certi scali spagnoli non mi sembra un grande salto di competitività. I traffici ferroviari di Koper sono maggiori di quelli di Trieste ma, stando a notizie di stampa, le ferrovie slovene non godono proprio di ottima salute. Se certi porti italiani sono arrivati sull'orlo del default, con decine di milioni di canoni non pagati - ha osservato Sergio Bologna - non è certo per colpa dell'84/94, ma della scorrettezza dei concessionari e degli amministratori. Con l'occhio distorto da un'eccessiva attenzione al mercato del container, inebriandosi con il sogno di progetti faraonici, parlando solo di grandezze fisiche e di infrastrutture e mai di conti economici, si è data enorme importanza al problema della governance e non si è prestata la dovuta attenzione all'impresa terminalista».
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- «I porti - ha proseguito Bologna - crescono quando le banchine sono gestite da soggetti che investono. I porti possono crescere quanto più spazio viene dato a questi soggetti e quanto meno viene lasciato a chi vegeta su rendite di posizione. Il demanio portuale - ha sottolineato - è una risorsa scarsa, già i canoni sono quattro volte inferiori a quelli di un interporto, se poi il concessionario, invece di rispettare il business plan che ha presentato ed in virtù del quale ha ottenuto il godimento di un bene pubblico, tira semplicemente a campare, il risultato non può che essere una perdita di competitività dell'intero sistema. Riusciamo a comprendere le ragioni di chi chiede oggi il prolungamento delle concessioni attuali - ha precisato Bologna - ma non sarebbe cosa inutile fare un'analisi dettagliata dei conti economici delle imprese terminaliste e delle imprese autorizzate ad operare in ambito portuale. Se è stata fatta questa analisi per i bilanci delle Autorità Portuali perché non farla anche per quelli dei terminalisti? Chi investe nei porti italiani ha il suo bel guadagno, la redditività delle filiali italiane di grandi gruppi stranieri, si tratti di PSA o di Eurogate, sta a dimostrarlo. Ma per favorire l'ingresso dei gruppi più disponibili all'investimento e all'innovazione c'è un solo modo: dare certezza del diritto. Questo significa abrogare centinaia di leggi contraddittorie e sostituirle con poche norme chiare, significa ricentralizzare processi decisionali che si sono decentrati - purtroppo il federalismo in Italia ha portato più danni che vantaggi - significa avere il coraggio una volta per tutte di fare scelte di piano. In mancanza di questo, l'accorpamento di Autorità Portuali non risolve nessun problema. Giusta invece - ha rilevato Bologna - la volontà di integrare il porto nel tessuto logistico terrestre, i porti italiani sono destinati al definitivo declino se servono soltanto il mercato interno, debbono forzatamente allungare i propri tentacoli e “pescare” su terreni contendibili con altri porti europei. Allora perché non cominciare dal tessuto logistico rappresentato dalla rete ferroviaria europea? Proprio Trieste sta dimostrando che è possibile, grazie alla ferrovia, conquistare nicchie di mercato distanti solo 450 chilometri da Anversa, lo sta dimostrando con il container ma soprattutto con il ro-ro. Questo è la prova ancora una volta che si è sbagliato a leggere le dinamiche della portualità solo con la lente del container, dimenticando che nei traffici Inframed, quelli da cui ci si aspetta la crescita più elevata, le navi ro-ro, con-ro e multipurpose hanno molto da dire. Concentrare la riforma su tutti gli aspetti riguardanti la modalità ferroviaria avrebbe significato fare un passo avanti notevole nella costruzione di un rapporto integrato ed efficiente tra porto e tessuto logistico retrostante, perché questo è il terreno su cui si riscontrano le maggiori carenze anche in porti d'interesse strategico, come Genova, Livorno, Savona».
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