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inforMARE - Ricordate il piano di riassetto dell'intera area del porto di Genova elaborato da Renzo Piano? L'architetto era assolutamente convinto della possibilità di reperire le ingenti risorse finanziarie (quattro miliardi di euro) necessarie per realizzare le opere (inforMARE del 25 maggio 2004). Non sappiamo se avesse ragione o torto. Certo è che oggigiorno mettere insieme questa somma attingendo in parte alle esangui casse dello Stato appare impossibile. L'indebitamento di molti Stati sovrani ha raggiunto livelli insostenibili e sempre più spesso i governi utilizzano risorse a credito non per promuovere lo sviluppo, ma per assicurare i servizi essenziali al cittadino ipotecando il futuro delle nuove generazioni. Piano ha presentato il suo progetto nel 2004, nel momento in cui si stava già chiudendo in Italia un lungo periodo caratterizzato da un'economia fondata sugli investimenti pubblici. Ora le risorse statali si sono prosciugate, non è più possibile e auspicabile ricorrere all'indebitamento e lo scenario è radicalmente mutato.
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- La massima parte dei progetti infrastrutturali ritenuti prioritari dalla classe politica nazionale sono chiusi nei cassetti in attesa di una più favorevole congiuntura economica. Consapevoli che da solo lo Stato non può farcela, politici ed economisti concordano sull'ormai indispensabile ricorso ai capitali privati per realizzare opere di interesse pubblico.
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- Nel caso di un inevitabile ricorso a partnership tra pubblico e privato, particolarmente difficoltosa appare l'applicazione di tale formula alle opere portuali. Generalmente sono infrastrutture con scarsa o nulla capacità di generare direttamente reddito, di assicurare prevedibilità del cash flow e di remunerare il capitale investito. Il primo ostacolo consiste quindi nel convincere il settore privato a trovare un interesse economico nell'investimento. Analogo problema, all'apparenza insormontabile, è costituito dall'indurre eventualmente chi gestisce o utilizza tali infrastrutture (il più delle volte società che non effettuano investimenti in opere portuali) a concorrere al finanziamento della loro costruzione. Sinora questa spesa è generalmente sostenuta dagli Stati.
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- Per aggirare l'ostacolo c'è chi ha proposto di servirsi di una “tassa di scopo”. Il legislatore italiano ha recentemente posto gli enti locali in grado di introdurre imposte destinate a finanziare la costruzione di opere pubbliche. È un sistema che sta funzionando per lo sviluppo e ammodernamento della rete ferroviaria in Svizzera, dove il Fondo FTP che finanzia le infrastrutture ferroviarie viene alimentato per un massimo di due terzi dalla Tassa sul Traffico Pesante Commisurata alle Prestazioni (TTPCP) e in misura consistente anche da una quota dell'imposta sugli oli minerali. Tuttavia tale sistema appare di difficile applicazione ai porti per una serie di ragioni, tra cui l'individuazione del soggetto da tassare. Potrebbe essere azzardato esigere la tassa dagli operatori marittimi o imporla sulla merce affossando la competitività del sistema marittimo-portuale italiano. Appare irrealistica anche l'ipotesi di gravare di tale onere l'autotrasporto su cui - per volontà politica, ma anche per le caratteristiche geografiche del territorio - si regge gran parte dell'economia nazionale.
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- Un'altra possibilità consiste appunto nel creare le condizioni affinché i capitali privati arrivino nei porti. Secondo i sostenitori di questa tesi, è necessario definire in Italia un preciso quadro normativo che incentivi i fondi di private equity o altri soggetti finanziatori ad investire nelle infrastrutture e nei porti. Le disponibilità finanziarie sarebbero ingenti: stando alle rilevazioni dell'Associazione Italiana del Private Equity e Venture Capital (AIFI), gli investimenti attivi nel portafoglio dei soli operatori monitorati in Italia al 30 giugno scorso ammontavano a 19,4 miliardi di euro e le ulteriori risorse disponibili per gli investimenti, escluse quelle dei fondi pan-europei e le disponibilità degli operatori “captive”, consistevano in 6,8 miliardi di euro.
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- Da tempo i fondi di private equity hanno fatto il proprio ingresso nei porti di alcune nazioni. Tuttavia è da rilevare come nel portafoglio di questi investitori figurino esclusivamente aziende che gestiscono infrastrutture portuali. Tra questi le società terminaliste statunitensi Ports America e Amports, che sono di proprietà del fondo Highstar Capital, e il gruppo terminalista Euroports, che è partecipato dai fondi Prime Infrastructure, Antin e Arcus.
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- Anche il comparto finanziario italiano da alcuni anni sta esaminando la possibilità di investire nel settore infrastrutturale. Un'iniziativa in tal senso è sfociata nella costituzione di F2i SGR (Fondo Italiano per le Infrastrutture) che, con oltre 1,8 miliardi di euro di risorse a disposizione, è il più grande fondo chiuso italiano. Tuttavia l'assenza di investimenti nel ramo marittimo-portuale nel portafoglio di F2i, che è costituito principalmente da utility e aziende del settore energetico, sembra confermare la presenza di ostacoli che al presente rendono inattuabili iniziative finanziarie per il comparto.
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- F2i è nato nel 2007 con l'obiettivo di investire in assets infrastrutturali e tra i suoi sponsor figurano la Cassa Depositi e Prestiti (CDP), due delle principali banche d’affari internazionali, Lehman Brothers e Merrill Lynch, alcune fra le principali fondazioni bancarie e casse previdenziali italiane nonché i due maggiori gruppi bancari italiani, BIIS (Banca Infrastrutture Innovazione e Sviluppo) di Intesa Sanpaolo e UniCredit. Non appare un caso che questi ultimi, principalmente per voce dell'amministratore delegato di BIIS, Mario Ciaccia, e del vicepresidente di UniCredit, Fabrizio Palenzona, invochino regole certe senza le quali è impossibile convincere i privati ad investire capitali nelle infrastrutture.
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- Non appare un caso, pure, che in F2i, che è presieduto da Ettore Gotti Tedeschi, presidente dell'Istituto per le Opere di Religione (IOR), figuri anche la finanziaria pubblica Cassa Depositi e Prestiti, a testimonianza di quanto il legame con lo Stato sia ancora indispensabile per la finanza italiana e per gli investimenti nel Paese. Un vincolo evidenziato dalle ripetute dichiarazioni dei dirigenti di Intesa Sanpaolo e UniCredit sulla necessità di predisporre forme di garanzia pubblica per favorire l'afflusso di capitali privati verso le infrastrutture.
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- Una formula più tradizionale e consolidata per finanziare le infrastrutture consiste nel ricorso al prestito da parte delle autorità pubbliche rivolgendosi alle banche o emettendo titoli obbligazionari. Una strada che, in teoria, permetterebbe di evitare un aggravio del costo del finanziamento non dovendo garantire ritorni in termini di rendimento come nel caso dei fondi. Però tale via sembra essere diventata poco praticabile perché colpita direttamente dai disastri all'economia causati dalla finanza derivata e dallo scompiglio determinato in alcuni enti locali dalla sottoscrizione di contratti di interest rate swap con il risultato di legare la finanza pubblica locale al rischioso andamento dei tassi di interesse.
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- Ciò a meno, come ha fatto l'Autorità Portuale di Savona per finanziare la sua quota (300 milioni di euro) necessaria per costruire la nuova piattaforma container di Vado Ligure (inforMARE del 26 febbraio e 9 aprile 2010), di affidarsi ad un gruppo di banche che ha formulato un'offerta che, per quanto è dato sapere, sarebbe basata su strumenti finanziari tradizionali. Il pool di istituti di credito vede come capofila BNP Paribas ed è costituito dalla BIIS del gruppo Intesa Sanpaolo, dalla MPS Capital Service del gruppo Monte dei Paschi di Siena e da Banca Popolare di Vicenza. Sulla nuova piattaforma container ligure opererà APM Terminals, società terminalista del gruppo danese A.P. Møller-Mærsk, leader mondiale del settore del trasporto marittimo containerizzato, che vi spenderà 150 milioni di euro.
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- Un'ipotesi avanzata di recente dall'Autorità Portuale di Venezia consiste nel coinvolgimento finanziario degli operatori marittimo-portuali nella costruzione di banchine e di altre opere. Inoltre, presentando recentemente alcune proposte di riforma della legislazione in materia portuale, l'ente ha rivendicato per le Autorità Portuali un'autonomia finanziaria «non più solo relativa alle spese correnti, ma anche autonomia di spesa per investimenti, tipicamente in infrastrutture portuali» (inforMARE del 29 ottobre 2010). Per far fronte agli investimenti la port authority veneta ha chiesto di «essere messa in grado di rischiare per sé assieme ai propri terminalisti, coinvolti tanto più quando si dovesse ipotizzare che ogni investimento portuale vada realizzato solo in presenza di una quota obbligatoria di cofinanziamento privato».
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- Una riflessione su questo tema, che pubblichiamo oggi, è stata sviluppata da Alceste Santuari, docente di diritto amministrativo dell'Università di Trento, coordinatore del comitato scientifico del progetto europeo “Watermode” che vede come lead partner l'Autorità Portuale di Venezia e membro del comitato scientifico del progetto Waterways Forward sulla navigazione interna. Santuari prende spunto dalla proposta per osservare che l'autonomia finanziaria prefigurata dall'Autorità Portuale ipotizza «un profilo di autonomia, inserito in un contesto di “concertazione” con terminalisti di quel porto» e per avanzare un'ipotesi di costituzione di un nuovo soggetto giuridico-organizzativo con l'istituzione di una fondazione di partecipazione.
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- La proposta dell'Autorità Portuale di Venezia fa seguito alla presentazione presso il ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti di un progetto dell'ente per realizzare un nuovo porto offshore all'esterno della laguna veneziana ed evidentemente definisce le possibili forme per concorrere al finanziamento dell'opera che il governo, per voce del ministro Matteoli, si è impegnato «a far decollare il prima possibile» (inforMARE del 23 settembre 2010). L'ipotesi formulata, che sembra prevedere appunto un più accentuato coinvolgimento finanziario dei terminalisti nella costruzione di opere portuali, apparirebbe di improbabile attuazione stante sia l'attuale prassi in vigore nel mercato (la parte pubblica, come detto, costruisce le infrastrutture e quella privata le attrezza e le gestisce) sia perché in altre nazioni le risorse finanziarie private per la costruzione di opere portuali provengono da istituti di investimento e non da imprese marittimo-portuali. Per di più la quota pubblica dell'investimento potrebbe essere considerata dalla Commissione Europea un finanziamento specifico a favore di un determinato operatore e, come tale, un illecito aiuto di Stato.
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- Obiettivo dell'authority portuale presieduta da Paolo Costa è di coniugare lo sviluppo dell'attività marittimo-portuale con i benefici di carattere ambientale derivanti da una limitazione di parte del traffico marittimo in laguna determinata dall'esclusione del transito di portacontainer e petroliere che verrebbero fatte attraccare ai moli del nuovo scalo d'altura. La volontà di preservare il delicato ecosistema lagunare è stata da tempo espressa con forza dalle autorità governative e locali ed ha portato alla realizzazione in corso del Mose, il sistema di difesa della laguna dai flussi di alta marea. Forse le considerazioni di carattere ambientale, da sole, bastano a motivare la costruzione di un nuovo terminal portuale fuori dalla laguna oppure a prendere in considerazione altre ipotesi per ridurre il numero o la dimensione delle navi che vi transitano regolamentando il traffico marittimo nell'area vulnerabile oppure dirottandolo verso altri approdi.
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- Per la costruzione del porto d'altura di Venezia sarebbero necessari, dicono le stime, 1.382 milioni di euro. Secondo l'Autorità Portuale, gli oneri per la realizzazione della diga foranea che proteggerà il porto offshore devono ricadere sullo Stato in quanto l’estromissione del traffico delle petroliere dalla laguna risponde all’obiettivo della legge speciale 798/94 per la salvaguardia di Venezia. Per reperire i fondi per il container terminal è previsto invece il ricorso a strumenti di finanza pubblico-privata, «senza aggravio - sottolinea l'ente - per i bilanci pubblici».
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- Oltre che da considerazioni di ordine strettamente finanziario, l'eventuale apporto economico dei terminalisti privati nella piattaforma offshore potrebbe essere ostacolato anche da alcune zone d'ombra che gravano sull'efficacia operativa del nuovo terminal. Secondo l'Autorità Portuale, la nuova piattaforma in acque profonde sarà «un'infrastruttura economicamente competitiva ed efficiente» e in grado di ridare al porto il ruolo di «anello di congiunzione tra il sistema logistico padano-veneto ed europeo e l'Estremo Oriente». L'ente spiega che nel nuovo terminal offshore verranno effettuate operazioni di allibo, che implicano il trasferimento di una parte del carico di una nave su altre imbarcazioni; queste ultime - nel caso del progetto in questione - delle chiatte che porterebbero i container sulla terraferma, distante 14 chilometri, a Porto Marghera. Tutto ciò evitando di incorrere in “rotture di carico”, scrive l'Autorità Portuale di Venezia nelle FAQ del suo sito web dove motiva e illustra alcune delle principali caratteristiche del piano.
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- Non addentrandoci in un'analisi su ciò che può essere definito “rottura di carico”, osserviamo che le attività di allibo e di trasporto su chiatta verso la terraferma potrebbero comportare oneri in termini di costi e tempi al pari di una rottura di carico. A ciò si sommerebbero le incognite di un'attività di movimentazione (allibo) dei container che avverrebbe in un terminal privo di aree di stoccaggio, sinora indispensabili nei porti per gestire organizzativamente complessi flussi di carichi containerizzati.
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- L'allibo, nell'ipotesi progettuale dell'Autorità Portuale, avverrebbe «attraverso attrezzature altamente automatizzate» grazie alle quali «i container vengono trasferiti, direttamente senza toccare terra, dalla nave portacontainer alle chiatte». Se, come prevedibile, i costi di quest'operazione saranno a carico del terminalista, ci chiediamo se i costi dell'inoltro dei container su chiatta e del loro sbarco sulla terraferma - presumibilmente più elevati rispetto a quelli di gestione dell'attività su una tradizionale area di stoccaggio dei terminal - saranno a carico dell'Autorità Portuale, di un altro soggetto pubblico o della stessa impresa terminalista.
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- Il nuovo porto d'altura veneziano presenta in ciò un'analogia con il cosiddetto “Bruco”, il progetto per trasportare i container dall'area terminalistica di Voltri del porto di Genova oltre Appennino sponsorizzato dalla Compagnia di San Paolo, fondazione azionista di Intesa Sanpaolo (inforMARE del 12 aprile 2010). Il piano prevede un investimento di circa 3,7 miliardi di euro per la realizzazione di un nastro trasportatore ferroviario che percorrerebbe un nuovo tunnel sotto la catena montuosa. Al di là della possibilità o meno di reperire le risorse per finanziare le opere, sia questo progetto che quello veneziano non appaiono esaurienti nello spiegare come verranno sostenuti i costi del trasporto dei contenitori dalla nave oceanica al terminale finale terrestre.
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- C'è da osservare che la funzione della nuova piattaforma veneziana appare analoga a quella già svolta a servizio dell'Alto Adriatico, come dell'Alto Tirreno, da terminal portuali offshore: sono i porti di transhipment di Taranto, con riferimento al bacino adriatico, e di Cagliari e Gioia Tauro per quello tirrenico. Di ciò appare consapevole anche l'Autorità Portuale di Venezia quando asserisce che «il principio fondamentale per ciò che concerne le operazioni relative ai container è che il terminal d'altura sia solo una base di trasbordo».
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- Su una scala di investimento inferiore (circa un miliardo di euro) si fonda un altro progetto portuale per l'Alto Adriatico. Si tratta della “Piastra logistica del Friuli Venezia Giulia”, un piano per creare un hub tramite lo sviluppo delle infrastrutture portuali di Trieste e Monfalcone. L'iniziativa è ancora una volta del gruppo bancario UniCredit che allo scopo ha costituito la società UniCredit Logistics. Anche questo progetto prevede la compartecipazione all'investimento della parte pubblica e di quella privata, la prima con circa 300 milioni di euro e la seconda con i restanti 700.
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- La proposta di UniCredit Logistics è basata sul potenziamento del container terminal di Trieste e sulla costruzione di un nuovo terminal a Monfalcone, nonché sul miglioramento delle infrastrutture di collegamento con i mercati. La minore consistenza dell'investimento e lo sviluppo del progetto su binari più tradizionali e tecnologicamente e operativamente più sperimentati sembra rendere più facilmente attuabile la costruzione del superporto Trieste-Monfalcone.
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- Questo percorso è più prossimo a quello su cui si è incamminata l'Autorità Portuale di Savona che - a parte i consueti intoppi, giustificati o meno, suscitati dall'impatto dell'opera sull'ambiente - è l'istituzione portuale che sembra più vicina a conseguire i propri obiettivi, anche se il progetto ligure per il momento è in stand by. Il finanziamento proposto dalle banche per la piattaforma di Vado sarebbe garantito da una percentuale (25%) dell'extra-gettito dell'imposta sul valore aggiunto sulle merci importate attraverso lo scalo ligure, come consentito dalla legge finanziaria 2007 (n. 296 del 2006). Tale forma di autonomia finanziaria per l'Autorità Portuale è infatti in attesa del via libera del ministro dell'Economia e delle Finanze, Giulio Tremonti, ritenuto avverso a forme di autosufficienza finanziaria di questo tipo.
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- Il progetto di UniCredit per Trieste-Monfalcone ha suscitato l'interesse della stessa A.P. Møller-Mærsk, che evidentemente è attenta ad ogni nuova iniziativa in ambito portuale come ha più volte dimostrato negli ultimi anni seguendo da vicino gli sviluppi della portualità mediterranea e mondiale.
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- Tuttavia, al momento, anche questa iniziativa è solo un sasso gettato nel paludoso stagno della portualità e della logistica italiana. Il progetto appare in fase embrionale, prossima all'idea. Lo scenario si è fatto ancor più indistinto quando UniCredit Logistics ha dichiarato di essere pronta ad investire nel porto di Genova.
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- Oltre alle consuete difficoltà che costellano l'iter di un progetto infrastrutturale, anche la proposta per l'Adriatico di UniCredit sembra presentare incognite sul fronte degli investimenti. Il gruppo bancario è infatti in attesa di partner disposti a rischiare, «soggetti privati ed istituzionali - ha precisato - interessati all'iniziativa».
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- Da parte sua, oltre ad un coinvolgimento economico degli operatori marittimo-portuali, l'Autorità Portuale di Venezia auspica di poter ottenere una propria autosufficienza di spesa che verrebbe garantita da una forma di autonomia finanziaria che non consenta solamente di trattenere fondi utili a coprire le spese dell'ente, ma di finanziare direttamente progetti infrastrutturali. La richiesta di autonomia finanziaria di Venezia e delle altre Autorità Portuali italiane si rifà al principio del federalismo fiscale introdotto all'articolo 119 del titolo V della Costituzione in base al quale “i Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa”, inoltre “hanno risorse autonome” e “stabiliscono e applicano tributi ed entrate propri”.
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- Questa possibilità sinora è concessa in misura estremamente limitata alle Autorità Portuali. L'articolo 5 della legge sui porti (n. 84 del 1994) stabilisce che spetta allo Stato l'onere per la realizzazione delle opere nei principali porti nazionali, ma recita inoltre che “le Regioni, il Comune interessato o l'Autorità Portuale possono comunque intervenire con proprie risorse, in concorso o in sostituzione dello Stato, per la realizzazione delle opere di grande infrastrutturazione nei porti”. La legge prevede che “le Autorità Portuali, a copertura dei costi sostenuti per le opere da esse stesse realizzate, possono imporre soprattasse a carico delle merci imbarcate o sbarcate, oppure aumentare l'entità dei canoni di concessione”.
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- L'entità dei diritti portuali e dei canoni di concessione, tuttavia, è appena sufficiente a coprire le spese correnti delle Autorità Portuali, che non dispongono di risorse per gli investimenti. Pertanto gli enti chiedono di poter trattenere parte del valore generato dai traffici portuali sotto forma di gettito fiscale e doganale, in particolare riscuotendo una percentuale dell'imposta sul valore aggiunto.
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- In molte sedi è stata evidenziata la notevole consistenza dell'incasso erariale derivante dall'applicazione dell'IVA sulle merci che arrivano in Italia attraverso i porti. Ovviamente il “merito” di generare questo gettito per l'erario non è interamente ascrivibile ai porti. Tuttavia è evidente che i porti rendono un servizio all'economia nazionale e ne favoriscono lo sviluppo. Per il solo fatto di essere detentori di una “servitù di passaggio” di materie prime e prodotti, i porti - e i territori e le comunità che li ospitano - sembrano poter legittimamente rivendicare una quota di queste somme.
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- Interamente incamerati dallo Stato oppure devoluti parzialmente ad enti locali, questi soldi sono destinati comunque a finire in un salvadanaio pubblico. Quello che, casomai, può cambiare è l'efficienza nella gestione di questi danari e la volontà politica di destinarli o meno alle opere portuali. Ai fini della capacità della parte pubblica di sostenere l'onere finanziario per realizzare le opere portuali queste variabili appaiono, se non ininfluenti, quantomeno non decisive, a meno che si opti di investire solo su alcuni porti abbandonando totalmente qualsiasi logica perequativa nella distribuzione dei fondi pubblici.
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- Se questi soldi, come è ora il caso, lo Stato centrale non li ha, è improbabile che ne possano disporre o che li possano reperire gli enti locali ai quali, con la svolta federalista, non sono stati assegnati solo maggiori poteri, ma anche più oneri.
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- C'è inoltre da rilevare come nel dibattito sull'autonomia finanziaria delle Autorità Portuali non sia stato sufficientemente affrontato il tema dell'assetto istituzionale e societario da dare a questi enti per consentire loro di gestire appropriatamente le maggiori entrate e le maggiori responsabilità.
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- In un momento come quello attuale di carenza di fondi pubblici, comunque, non rimane che ricorrere alla risorsa finanziaria privata. Nel caso della proposta veneziana, un intervento economico più significativo degli operatori marittimo-portuali potrebbe determinare anche un aggravamento dei conflitti di interesse in seno alla comunità portuale e frantumare i già fragili, precari e talvolta compromessi equilibri all'interno dei Comitati Portuali.
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- Adesso le uniche strade percorribili appaiono quella di consentire a fondi di investimento, società di private equity, banche o altri soggetti economici di finanziare i porti e quella di dotare le Autorità Portuali di una qualche capacità di investimento. Per imboccare la prima via serve la stesura di norme specifiche che rendano appetibile l'investimento definendo un contesto legislativo favorevole al coinvolgimento dei privati nella realizzazione di investimenti pubblici. Perché il secondo percorso non si concluda con un fallimento sarebbe necessario definire un nuovo assetto organizzativo e giuridico dell'istituzione Autorità Portuale.
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- In questo momento, più che denotare l'interesse del settore finanziario ed economico nei confronti dei porti, la presentazione di una serie di imponenti progetti logistico-portuali sembra compromettere la possibilità di un'evoluzione coerente delle forme di investimento nelle infrastrutture che trasferisca la sorgente del flusso finanziario dall'autorità pubblica alla finanza di progetto o al partenariato pubblico-privato. (iM)
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Bruno Bellio
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