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Non di sola logistica
Porti, navi, treni, aerei, camion e infrastrutture possono rilanciare l'economia e cogliere le opportunità della globalizzazione? Alla sfida commerciale asiatica si aggiunge quella del Nord Africa
12 luglio 2010
C'è chi ritiene veritiera l'equazione che compensa il calo della manifattura e della produzione industriale con la crescita dei servizi, dell'innovazione e della logistica. Ciò che si perde da una parte - secondo costoro - si recupera dall'altra. È un'equazione con la quale si vuole eguagliare il peso della old economy a quello della new economy, bilanciando i beni materiali con quelli immateriali.
Le immense opportunità offerte dalle nuove tecnologie, sia quelle informatiche che quelle applicate alla produzione e ai servizi, hanno aperto nuovi orizzonti. La caduta di barriere politiche e culturali ha fatto il resto ed è nata la globalizzazione. In 15-20 anni è stato compiuto il passo in avanti più lungo della storia: i continenti, le nazioni, le comunità sono più vicine e interconnesse. Molte barriere fisiche sono cadute. Molti ostacoli culturali vengono scavalcati. I problemi degli uni sono quelli degli altri. Ciò che accade in un luogo ha effetto a grande distanza. La new economy non è percepita come un fatto nuovo, ma come una rivoluzione a cui ci si oppone o che si asseconda.
Emblema di questa rivoluzione è la rete internet, che consente a chiunque pari condizioni di accesso e di diffusione di dati e informazioni. È un'opportunità sfruttata in tutto il globo. Tuttavia non occorre essere luddisti per percepire un'ostilità crescente nei confronti della globalizzazione.
Come riedizione accelerata dell'industrializzazione, porta con sé i medesimi timori e le stesse preoccupazioni. Disoccupazione e bassi livelli salariali, piaghe in precedenza attribuite allo sviluppo industriale, ora sono addebitate alla globalizzazione. La concorrenza non è più solo quella delle macchine, ma è portata pure da popolazioni, sistemi politici ed economici che si comportano in maniera differente e che in passato erano al di là di barriere tangibili o culturali che ora si stanno infrangendo.
Molti strati della società faticano a mantenere il proprio benessere e incontrano difficoltà anche maggiori nel ricavarlo percorrendo la difficile strada dell'innovazione. Per aumentare il proprio tenore di vita, o anche solo per conservarlo, il mondo occidentale è costretto a cercare ricchezza nella produzione di beni e servizi sempre più sofisticati.
Però sovente la capacità del prodotto innovativo di remunerare il suo ideatore è poco duratura e scarsa. L'hardware e il software, macchine e codici informatici all'avanguardia prodotti sino a qualche anno fa dalle nazioni avanzate, oggi sono realizzati nei Paesi in via di sviluppo. L'idea e il prodotto d'eccellenza hanno vita breve: in poco tempo vengono replicati da economie che non hanno ancora la capacità di proporre tali innovazioni. Spesso chi produce innovazione in una regione del mondo la applica a prodotti realizzati in un'altra parte del globo.
La new economy è svincolata da una sede fisica di produzione e le nuove tecnologie della logistica consentono alla old economy di produrre beni dove il costo della fabbrica e della manodopera è quasi irrisorio.
Per colmare il vuoto determinato dall'impoverimento della propria capacità produttiva, i Paesi avanzati si affidano all'high tech e alla logistica. La filosofia è progettare e importare beni realizzati all'estero.
Molti governi occidentali danno per persa la competizione con i Paesi asiatici sul fronte industriale. L'economia italiana, quella europea e americana soggiaciono alla concorrenza dell'Asia, dove ora gira il motore del mondo.
La società è in rapida trasformazione. L'economia cambia fisionomia e la logistica si adegua. Il sistema del trasporto e della distribuzione ha sfruttato il repentino aumento dei volumi di merci scambiati tra le nazioni per effetto della delocalizzazione delle attività produttive, ma recentemente ha accusato il forte impatto dell'accentuato calo del commercio causato dalla crisi economico-finanziaria.
I vari comparti del sistema sopportano in misura differente le conseguenze della recessione. Nel rigido settore ferroviario si manifestano ancora posizioni monopolistiche. L'autotrasporto è dilaniato dalla concorrenza che impera in alcune macroregioni, come quella europea. Il declino dell'economia ha colpito duramente il trasporto aereo e marittimo, che - oltre alla crisi - affrontano da anni le sfide della globalizzazione prima ancora che questa avesse un nome.
I porti seguono le vicissitudini dei mercati e del trasporto via mare. I porti di transhipment, che presentano più di altri caratteristiche industriali e che, oltre ai mercati, servono soprattutto le linee marittime, sono invece teatro di un fenomeno nuovo. Essenziale è l'economicità della funzione di trasbordo che svolgono, cioè di trasferimento dei container dalle navi madre che percorrono le lunghe rotte oceaniche alle navi feeder che distribuiscono i carichi ai porti vicini.
In Italia i nuovi terminal portuali meridionali, che fino a qualche anno fa erano considerati cardine logistico dei traffici marittimi tra Asia ed Europa per la loro posizione strategica sulle rotte che passano per Suez, vengono ora ritenuti fuori mercato e perdenti rispetto ai più recenti porti nordafricani, che svolgono la stessa funzione a costi inferiori.
Parrebbe segnato il destino di hub terminalistici costruiti pochi anni fa a servizio del sistema economico europeo: Gioia Tauro, Taranto e Cagliari in Italia, Algeciras e Valencia in Spagna, ma anche Malta e il porto del Pireo protesi verso un mercato, quello del Mediterraneo orientale e del Mar Nero, che il porto egiziano di Port Said, posto allo sbocco del canale di Suez, ha intenzione di fare suo.
Più a nord porti di destinazione finale come Genova, La Spezia, Venezia, Trieste, Barcellona e Marsiglia per reggere alla crisi si affidano ai loro storici bacini di mercato continuando a progettare infrastrutture utili a raggiungere territori più lontani. Però le tradizionali aree di mercato si stanno depauperando e non appaiono in grado di generare le risorse indispensabili per realizzare le infrastrutture necessarie ai porti per estendere il proprio raggio d'azione.
Con difficoltà l'Italia tenta di traforare la catena alpina per allungare le mani verso il cuore industriale dell'Europa e il suo bacino di consumo. Ma in seno alla stessa UE si moltiplicano coloro che ritengono economicamente inattuabile realizzare parti del sistema di reti infrastrutturali transeuropee TEN-T cui appartengono le gallerie con l'Italia.
Sembra giunto il momento in cui l'economia non è più capace di sviluppare quella logistica necessaria ad alimentarla. Tuttavia c'è chi è convinto che la logistica possa risollevare le sorti dell'economia.
Vessillifero di questa dottrina è il sottosegretario ai Trasporti, Bartolomeo Giachino. Un programma televisivo di informazione giornalistica lo ha recentemente interrogato sulle opportunità offerte dalla progettata linea ferroviaria ad alta capacità Torino-Lione. Giachino ha prospettato la crescita di grandi aree logistiche nel nord-ovest italiano. Ad imprenditori piemontesi e lombardi è stato chiesto quale sarà il futuro delle loro aziende. C'è chi ha risposto che intende spostare la propria attività all'estero, dove i costi sono inferiori. C'è chi ha confermato di aver ricevuto interessanti offerte per trasferire l'azienda nell'Est europeo oppure in Marocco.
Il Marocco e, in generale, il Nord Africa, sono tra le nuove sedi di delocalizzazione di imprese che cercano in tutti i modi di tagliare i costi per rimanere competitive. Su quelle coste del Mediterraneo stanno sorgendo anche i nuovi hub portuali di transhipment, dagli egiziani Alessandria, Damietta, El Dekheila, Port Said , agli algerini Algeri e Djen Djen, ai tunisini Radès ed Enfidha, al grande relay hub marocchino di Tanger Med. Tutti concorrenti temibili per i terminal di transhipment dell'opposto litorale del bacino.
La scorsa settimana a Porto Lotti (La Spezia) si è tenuto un convegno sul tema “Liguria porta d'Europa: opportunità per i porti delle due sponde del Mediterraneo” organizzato con l'obiettivo di avvicinare due coste mediterranee: quella del nord Africa (dall'Egitto al Marocco) e quella della Liguria. «Le delegazioni del Nord Africa - ha spiegato Alfredo Toti, presidente dell'azienda La Spezia Eps della Camera di Commercio - ci hanno mostrato i progetti di trasformazione e di rafforzamento delle loro strutture portuali: un'opportunità, questa, estremamente interessante per le nostre imprese cui si possono aprire, in quelle zone, nuove e proficue occasioni d'investimento. L'incontro ha dunque gettato basi solide per consolidare la presenza delle aziende spezzine e liguri sul mercato nordafricano».
Sulla base delle considerazioni precedenti c'è da chiedersi se le imprese liguri guardino alla sponda sud del Mediterraneo per cercare nuovi clienti o per trovare aree che le ospitino. Una risposta è giunta da Franco Aprile, presidente di Liguria International, che ha ricordato come, ad oggi, siano circa tremila le imprese che chiedono sostegno per proporsi sulle aree del Nord Africa.
I rappresentanti del Nord Africa - ha confermato il presidente dell'Autorità Portuale della Spezia, Lorenzo Forcieri - hanno illustrato i grandi progressi che stanno compiendo i rispettivi Paesi nell'ambito dei porti e della logistica e della necessità di una forma molto stretta di cooperazione economica con l'Italia. «In questo quadro - ha osservato Forcieri - il sistema dei porti liguri si pone come interlocutore privilegiato e principale rispetto alle opportunità che ci vengono offerte. Abbiamo caratteristiche e potenzialità uniche; i nostri mercati di riferimento sono quelli più ricchi e produttivi del Paese, da quelli dell'Italia centrale a quelli dell'Italia del Nord. Il nostro auspicio è quello di diventare sempre più “porta d'Europa” anche per le nazioni nordafricane».
Tuttavia la porta è un'apertura da cui si entra, ma dalla quale pure si esce. Quando non sono le grandi imprese che vanno in Nord Africa a realizzare importanti opere e infrastrutture, ma sono - come quelle citate dal programma televisivo - medie e piccole aziende in cerca di salvezza lo scenario diventa preoccupante. A queste società non bastano più una vantaggiosa collocazione geografica e una rete infrastrutturale capace di collegarle con i mercati quando stanno perdendo o hanno perduto la propria capacità di innovazione e di produzione e quando attorno a loro la capacità di consumo della regione sta scemando.
Per tornare all'assunto iniziale: da sole le infrastrutture e la logistica non appaiono in grado di compensare la riduzione della capacità di consumo e di produzione. L'equazione non sembra bilanciata.
Quella che prospetta uno sviluppo della logistica non connesso, ma sganciato dalla crescita dell'economia industriale, appare essere una politica che promette un avvenire improbabile non essendo in grado di definire soluzioni possibili.
Oggi la politica in Italia e in Europa si sviluppa principalmente secondo due assi portanti in contrapposizione tra loro: liberismo e autonomismo.
In un mercato globale il libero mercato propugnato dall'Unione Europea, che ha tra i suoi alfieri Mario Monti, cozza contro i mercati niente affatto liberi che le industrie trovano appena fuori dai confini comunitari. Uno dei principali effetti del radicalismo liberista è il trasferimento dei siti produttivi in nazioni in cui la manodopera costa meno e le leggi sul lavoro e sull'industria sono meno vincolanti. La globalizzazione ha accelerato vertiginosamente questa tendenza spinta da interessi spesso in contrasto con quelli delle economie dei Paesi avanzati.
L'UE appare ancorata ad una concezione di competizione economica che ha funzionato fino a quando sono mutati gli equilibri politici con la caduta del Muro di Berlino e con l'apertura dei confini cinesi alle imprese e ai capitali occidentali. Mosca ha capitolato al capitalismo e Pechino ha preso nella sua rete gran parte del sistema economico ansioso di delocalizzare.
Un sistema basato sulla competizione funziona dove ci sono regole che tutti devono rispettare. In questa iniziale fase della globalizzazione è di fatto impossibile imporre a tutti lo stesso schema di gioco ed è stravolta la cultura che mira alla liberalizzazione e alla concorrenza.
Sia il sistema economico labour-intensive che quello capital-intensive sono alla ricerca di regioni che presentino una relativa stabilità politica e che offrano minori costi di produzione. I capitali si concentrano dove la fiscalità è meno opprimente.
Alle regioni che assistono al depauperamento del proprio sistema industriale e finanziario non rimane altra possibilità che adeguarsi al nuovo gioco: la parte del sistema che si confronta con i concorrenti esteri è costretta ad abbassare i costi e l'altra parte, quella ancora protetta da prerogative monopolistiche, tende ad arroccarsi su rendite di posizione.
Su presunte o reali rendite di posizione e sulla convinzione di saper sfruttare le proprie potenzialità e risorse sembrano fondarsi le spinte autonomiste europee, che puntano a proteggere limitate comunità socio-economiche.
Chi parla di federalismo sovente ha in mente un sistema isolazionista o autarchico che mira a raccogliere i buoni frutti della propria terra ed è chiaramente inconsapevole del mutamento epocale in atto.
Ma le esigenze federaliste, autonomiste o secessioniste hanno un fondamento. Se globalizzazione vuol dire consegnare ad altri le chiavi della macchina che produce sostentamento e benessere, appare arduo convincere chichessia a disfarsi del proprio mezzo.
In uno scenario nel quale l'UE continua ad imporre ai propri cittadini e alle proprie imprese regole di libero mercato in un mercato globale che non è affatto libero non ci si può stupire della reazione della società e dell'economia, non disposti ad attendere che la Commissione Europea e i suoi partner convincano gli altri a confrontarsi ad armi pari. L'obiettivo di Bruxelles è futuribile, mentre il deterioramento del sistema socio-economico italiano ed europeo è rapido e, come tale, visibile agli occhi di tutti.
La crisi finanziaria, che recentemente ha scosso il fortino europeo con il pre-default della Grecia, ha costretto l'UE ad ammettere la necessità di fare sacrifici, cioè di diminuire gli standard sociali, i servizi e le tutele nei confronti dei propri cittadini.
Nessuna risposta politica è seguita all'iniziale ingente erogazione di fondi pubblici per tamponare il rischio di un collasso del sistema finanziario e al successivo appello-ordine rivolto agli Stati membri affinché taglino la spesa pubblica. Sicuri che, passata la tempesta, il motore ripartirà, nessuno ha prospettato strategie per lo sviluppo.
Il precetto rimane quello di sempre. L'Europa percorre imperterrita la stessa strada, certa della meta, sicura che per lo sviluppo coeso dell'Unione basti integrare le comunità connettendole con una rete di trasporto a servizio dei passeggeri e delle merci. La logistica prima di tutto.
L'avvicinamento delle comunità e la fluidificazione della circolazione di persone e beni, cioè la logistica, sono elementi essenziali per la coesione sociale ed economica. Ma non sono i soli, né i principali. Assolutamente non devono essere gli unici. Di sola logistica non si prospera e neppure si sopravvive.
Gli ostacoli, anche quelli all'apparenza insormontabili, si superano se oltre si intravede un traguardo. L'obiettivo additato dall'UE è quello di un mercato equo e sostenibile, meta difficile da raggiungere entro i confini comunitari ed obiettivo fantascientifico da conseguire a livello planetario. L'UE sembra aver spostato l'asticella troppo in alto e sono sempre di più quelli che rinunciano o si rifiutano di saltare.
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