61a Assemblea Annuale
Relazione del Presidente, Filippo Gallo
Lecce, 28 maggio 2010
- Signore e Signori, Autorità,
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- per la prima volta l'Assemblea Generale degli agenti e mediatori
marittimi si tiene a Lecce, una città in realtà priva
di un porto, il luogo per eccellenza dove si svolgono le nostre
attività di raccomandazione e mediazione marittima. Ma,
coscientemente, abbiamo scelto questa bellissima culla del barocco
italiano perché facente parte di una Regione come la Puglia
che di vocazione marinara ne ha invece moltissima, con ben dieci
località con rilevanti attività portuali.
-
- Il 2009 passerà alla storia dello shipping come un anno
tra i più difficili dell'epoca moderna. Già a fine
2008 si erano manifestati i primi segnali di una crisi finanziaria
che nell'arco di poche settimane avrebbe coinvolto tutta l'economia
mondiale. Per sua natura, l'industria marittima è sempre la
prima ad essere colpita, e per questo fummo i primi a cogliere i
segni del cambiamento. I primi mesi del 2009 sono stati sicuramente
i più drammatici, con i bilanci di tutti gli armatori e delle
compagnie di linea in profondo rosso e con il blocco sostanziale
degli ordini per nuove costruzioni ai cantieri navali. Ma un dato
emerge oggi in tutta evidenza: nel momento più difficile a
memoria d'uomo, l'industria dello shipping ha dimostrato di avere
una straordinaria solidità, che le ha permesso di superare
una congiuntura così negativa limitando al minimo le perdite.
Nessuna fra le maggiori compagnie armatoriali ha dovuto portare i
libri in Tribunale, nessuna fra le nostre agenzie marittime ha
dovuto alzare bandiera bianca.
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- I colpi di scena sono stati tanti, così come tante sono
le lezioni che abbiamo tratto sulla velocità del cambiamento
e sulla difficoltà di fare previsioni a lungo termine, con la
conseguente necessità di continui aggiustamenti e cambiamenti
di rotta. Perché una cosa soprattutto è oggi chiara a
tutti: che in questo anno e mezzo la geografia economica del mondo è
radicalmente cambiata, e nulla sarà come prima. Il baricentro
economico si è definitivamente spostato ad Oriente, mentre il
ripiegamento dell'asse transatlantico sembra ormai irreversibile,
almeno in termini di volumi di traffico.
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- Pensare oggi che passata la crisi si potrà tornare ad
operare nelle stesse condizioni di prima significherebbe commettere
errori simili a quelli compiuti nella seconda metà degli anni
'70, dopo i due choc petroliferi che anche allora cambiarono la
geografia politica del mondo. Quelli che capirono che l'asse della
produzione si sarebbe spostato con ancora maggiore velocità
in Giappone ed in Corea con nuovi modelli di sviluppo e di
organizzazione del lavoro colsero straordinarie opportunità
di mercato, mentre quelli che non si resero conto del cambiamento,
ad iniziare da molte industrie italiane, furono progressivamente
marginalizzate.
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- La storia si ripete: quasi nessuno ha saputo prevedere per tempo
la crisi di fine 2008, pochi hanno azzeccato i tempi dell'uscita
dalla recessione e pochissimi ci avevano messo in guardia contro la
possibilità di implosione del sistema europeo, emersa con
fragore con il rischio di insolvenza di un Paese come la Grecia.
Così ci ritroviamo nel mezzo di una nuova crisi europea che
si sovrappone a quella internazionale. Con il rischio che il blocco
di molti investimenti si riveli una cattiva terapia per un'economia
di trasformazione come la nostra, che ha bisogno di ridare
competitività al sistema proprio con la realizzazione di
opere infrastrutturali troppo a lungo ritardate. Purtroppo è
soprattutto la cattiva finanza che continua a prosperare, malgrado
tutte le rassicurazioni delle banche centrali. Non più e non
solo negli Stati Uniti ed in Europa ma anche e soprattutto in
Oriente ed in particolare in Cina, dove vi sono titoli che nei mesi
della crisi hanno guadagnato il 200, il 300 e perfino il 400%.
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- Questa volta, tuttavia, le imprese italiane nel loro complesso
si presentano più attrezzate sul mercato emergente. Le
aziende italiane in Cina sono oltre 2 mila e gli impianti produttivi
più di 600. Gli investimenti italiani in Cina degli ultimi 15
anni sono stati ingenti. Si sarebbe potuto fare molto di più,
perché l'Italia è solo quarta per interscambio dietro
a Germania, Francia ed Olanda. E quest'ultima, come ben sappiamo,
deve la sua posizione al porto di Rotterdam e al suo sistema
logistico. L'Italia conferma invece il suo cronico disavanzo con la
Cina, innescato sia dalle delocalizzazioni che dall'acquisto di beni
a basso costo di produzione. Solo lo scorso anno sono stati
importati beni per più di 20 miliardi di euro, e per Pechino
l'Italia è salita alla decima piazza globale. Ma oggi è
necessario un ulteriore salto di qualità, che consenta ad
entrambi i Paesi di diventare complementari, pur con le debite
proporzioni. Un buon punto di partenza potrebbe essere quello degli
investimenti esteri diretti, il settore nel quale il nostro Paese è
cronicamente fra i più arretrati in Europa. L'opportunità
è il fondo sovrano cinese, che ha destinato all'Europa 200
miliardi della sua dotazione di 600 miliardi di dollari per
investimenti strategici. I settori sui quali investire sono molti,
ma una posizione di rilievo dovrebbe essere assunta dai trasporti e
dalla logistica. Naturalmente se gli investimenti cinesi saranno
agevolati e non visti con il solito sospetto.
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- Non bisogna tuttavia dimenticare che una delle ragioni della
crisi è stata la convinzione della possibilità di una
crescita illimitata, dopo un decennio al gran galoppo. Ed è
stato in gran parte proprio il ‘fattore Cina' a far spingere
troppo sull'acceleratore, con i suoi trend di crescita a doppia
cifra. La crisi del credito seguita all'esplodere della bolla
finanziaria americana ha coinvolto tutti i settori produttivi, con
un effetto domino inarrestabile. Per tutti il tema dominante
dell'anno è stata la sopravvivenza, piuttosto che la quota di
mercato.
-
- La crisi dello shipping è stata il riflesso a livello
globale dell'economia dei paesi economicamente più
sviluppati, accentuato da una crisi di sistema. Non dimentichiamo
che la recessione ha preso l'avvio da una crisi finanziaria ed ha
fatto presto sentire i suoi effetti sull'economia reale. La
conseguenza è stato il tracollo del commercio che ha
interessato le materie prime, dalle commodities ai prodotti
petroliferi fino ai prodotti finiti, a conseguenza del calo dei
consumi. Lo shipping, gravato da un order-book eccessivo, sostenuto
da speculazioni finanziarie e dalla comparsa improvvisa di operatori
non professionisti, ha subito queste circostanze negative con
pesanti ripercussioni sulla stabilità economica di alcuni
settori armatoriali.
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- Per fortuna i danni sono stati limitati, grazie alla solidità
dei fondamentali sui quali il nostro settore si è sempre
basato. Complessivamente, il traffico marittimo è stato lo
scorso anno di 7,8 miliardi di tonnellate, il 4,5% in meno rispetto
al volume record di 8,2 miliardi di tonnellate raggiunto nel 2008.
La contrazione dei beni di consumo ha determinato la flessione dei
traffici containerizzati, scesi in un anno del 9% da 1,3 a 1,2
miliardi di tonnellate. Gli anni precedenti erano stati positivi.
Discreto il 2006, ottimo il 2007 ma già eroso dalla crisi il
2008. Le compagnie si sono così trovate a dover fronteggiare
il 2009 con un portafoglio ordini troppo ricco e scarse risorse a
disposizione. Con la costante della sovraccapacità di stiva
rispetto alla domanda, un tema che crediamo caratterizzerà il
settore anche per il prossimo anno. Innanzi tutto per una questione
tecnologica: gli armatori hanno investito molto nelle nuove
costruzioni, con innovazioni che sono state addirittura
straordinarie. Per fare solo due esempi, pensiamo alle mega
portacontenitori da oltre 13.000 teus che si stanno introducendo
sulle grandi rotte internazionali, ma anche alla normalità di
navi da oltre 6.500 teus impegnate sulle rotte regionali. Oppure
alle grandi navi da crociera, prodotte principalmente in Italia,
eccezionalmente diverse da quelle che venivano realizzate solo dieci
o quindici anni fa. Per non parlare dell'attenzione degli armatori
alla protezione dell'ambiente e alla qualità della vita a
bordo, temi sui quali i passi in avanti realizzati dai Paesi più
avanzati sono stati addirittura epocali.
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- Per far fronte alla crisi, le agenzie marittime hanno dovuto dar
corso a drastici programmi di abbattimento delle spese, che nella
gran parte dei casi si è riusciti ad ottenere senza riduzioni
strutturali del personale o con esuberi limitati. In Italia le
agenzie marittime hanno potuto beneficiare in molte Regioni dei
contributi locali per la cassa integrazione in deroga, che ha
consentito di mantenere il lavoro a diverse centinaia di persone. È
uno strumento che ha ben funzionato, e che in alcuni casi continua
ad essere utilizzato anche quest'anno, pur nella limitatezza dei
fondi disponibili. In una situazione così difficile e
articolata emerge anche l'utilità per le compagnie di linea
di valorizzare nuovamente le figure degli agenti raccomandatari a
servizio degli armatori. È una riflessione che riguarda in
particolare alcuni settori dello shipping internazionale, in
controtendenza rispetto alla scelta di fare agenzia diretta
prevalente degli ultimi anni. Anche perché le compagnie hanno
dovuto occuparsi prima di tutto di strutturare interventi molto
articolati sul ‘core business' della loro attività, dai
sempre più diffusi accordi di collaborazione fra vettori
diversi alla sempre più estesa applicazione dello ‘slow
steaming' per le navi di linea, dai rinvii nelle consegne alla
cancellazione di ordini ai cantieri, dai risparmi sui noleggi alla
messa in disarmo di quote anche significative della flotta. Per
finire con la sostanziale messa in soffitta di molti progetti di
acquisizione diretta dei terminal da parte delle compagnie, volte
all'acquisizione del controllo di tutto il ciclo trasportistico.
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- Il consolidamento fra le compagnie di trasporto container
previsto da molti non c'è stato, ed il mercato delle fusioni
ed acquisizioni è rimasto praticamente fermo. È invece
cambiato radicalmente l'approccio al mercato da parte sia dei
consorzi armatoriali che delle singole compagnie, con accordi
inediti soprattutto fra i players maggiori. Con l'entrata in
servizio di un gran numero di navi di grandissima capacità,
questa tendenza potrebbe determinare nuovi equilibri su alcune
rotte, aprendo però nel contempo nuove possibilità ad
altri operatori nei servizi diretti da scalo a scalo. Ma credo vada
sottolineato che il processo di riorganizzazione avviato nell'ultimo
anno è stato forse intrapreso con ritardo, considerato che da
molto tempo si sottolineava la necessità di una maggiore
concentrazione dei gruppi armatoriali ed una migliore collaborazione
fra i consorzi. Gli operatori con flotte esigue si stanno comunque
riducendo, e, nel momento in cui l'offerta di navi si sarà
riequilibrata, il mercato si presenterà più
concentrato, disponendo di nuove navi costruite seguendo moderni
criteri tecnologici, più attenti all'efficienza ed al
risparmio energetico. Nel settore del carico secco, dopo la
stagnazione di inizio 2009 i segnali positivi sono stati molti,
grazie soprattutto alla forte ripresa di alcuni mercati, soprattutto
asiatici. Il settore continuerà tuttavia ad essere
caratterizzato anche quest'anno da una accentuata volatilità.
Il settore cisterniero ha avuto un anno particolarmente difficile,
ma le previsioni per l'anno in corso sono tutto sommato
incoraggianti. Con il ‘phasing out' anticipato delle ultime
mega petroliere monoscafo, la qualità della flotta
cisterniera mondiale è senza dubbio migliorata, con la flotta
dei Paesi più avanzati quasi completamente rinnovata.
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- Oggi i segnali di ripresa dell'economia hanno basi solide, ma
vengono soprattutto da alcune parti del mondo, meno da altre. In
particolare, secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale, la
maggior parte delle economie industrializzate avrà una
crescita modesta, dallo 0,6% dell'Italia all'1% del Giappone,
dall'1,5% della Germania all'1,8% degli Stati Uniti. In questa
situazione l'economia cinese diventerà ancor più
dominante: rispetto alla crescita dell'8,7% del 2009 già
quest'anno si prevede il ritorno alla doppia cifra, con una
percentuale superiore al 10%. Sul mercato marittimo la nuova
accelerazione si è già vista alla fine dello scorso
anno, con il forte incremento nell'importazione delle materie prime,
mentre da alcuni mesi i suoi riflessi si fanno finalmente sentire
anche nel settore del traffico container. Il traffico
containerizzato mondiale supererà quest'anno la barriera dei
126 milioni di teus, per arrivare nel 2011 a 134 milioni di teus. E
ricordo a tutti noi che la barriera dei 100 milioni di teus fu
superata nel 2005, mentre per la soglia dei 10 milioni di teus
bisogna risalire al 1980, quando la movimentazione di container
pieni fu di 11 milioni 400 mila teus.
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- Un altro elemento di novità è la forte
accelerazione dell'economia di alcuni Paesi del Sud America, con
particolare riferimento al Brasile, che pur tra le consuete
contraddizioni sta nuovamente vivendo una stagione di forte
sviluppo. Per quanto riguarda invece il Nord America, malgrado la
recente ripresa delle importazioni con percentuali fra il 10 ed il
15%, la sensazione diffusa è che ci vorranno ancora un paio
di anni perché i volumi del traffico internazionale possano
tornare ai livelli precedenti la crisi.
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- Il quadro di riferimento internazionale è quanto mai
‘challenging', ed offre discrete opportunità ad un
sistema produttivo flessibile come il nostro. Che difetta però
di un efficiente sistema logistico, essenziale per il successo di un
Paese trasformatore. Il punto di partenza necessario è quello
della riforma della legge portuale del 1994, che nella prima fase
della sua applicazione ha dato ottimi risultati, ma che ha assoluto
bisogno di essere rinnovata. La riforma introduce novità su
aspetti di rilievo, da piani regolatori più veloci a
procedure più snelle per i dragaggi. Inoltre, attribuisce
maggiori poteri al presidente rispetto ad un comitato portuale
comunque più leggero, nel quale gli agenti marittimi
continueranno a non avere alcun conflitto di interesse, essendo
quelli che portano le navi nei porti.
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- Purtroppo, dopo una gestazione durata alcuni anni, la riforma si
è arenata sul tema di fondo di una relativa autonomia
finanziaria delle autorità portuali. Il disegno di legge
proposto dal Governo è del tutto carente proprio nella norma
chiave, quella dell'autonomia finanziaria, promessa a più
riprese sia dalla maggioranza che dall'opposizione e ancora una
volta negata. Il Presidente della Commissione Trasporti del Senato
ha dichiarato che il disegno di legge verrà riproposto,
riducendo a percentuali simboliche la restituzione ai porti di
quanto incassato sotto forma di Iva. Ma oggi sappiamo che a causa
della crisi europea, nell'arco dei prossimi due anni il Governo
dovrà mettere mano ad una manovra da circa 25 miliardi di
euro, che comporterà tra l'altro il probabile taglio di molti
investimenti infrastrutturali. Anche per questo motivo ci sembra
necessario porre il tema dell'autonomia finanziaria dei porti in
termini diversi. Anche perché continuando a sostenere che con
pochi punti di IVA sarà possibile accendere nuovi mutui, si
rischia di dare corpo alle preoccupazioni di chi cerca con ogni
mezzo di limitare il deficit.
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- A nostro giudizio, sarebbe più opportuno comprendere le
ragioni del Ministro Tremonti e ritornare al punto di partenza,
quello delle linee guida fissate alcuni anni fa dall'Unione Europea,
poi completamente disattese sia dall'Italia che dalla maggioranza
dei Paesi dell'Unione. Con un'aggravante: che i porti italiani
restano probabilmente gli unici al mondo a tassare in maniera
diversa la nave e le merci. Sull'esempio di quanto avviene ormai da
molti anni in Nord Europa, crediamo che il percorso più
trasparente dovrebbe essere quello del ‘pay per use', con il
conseguente abbattimento dei costi collaterali che determinano la
scelta di altri porti europei da parte della merce.
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- Un sistema semplice, basato su una forma giuridica più
moderna delle autorità portuali, che comporterebbe di
conseguenza il federalismo fiscale più oggettivo. I porti che
sapranno sviluppare maggiori traffici saranno quelli che
incasseranno di più e che potranno quindi investire di più
ed attrarre investimenti privati dai grandi gruppi sia italiani che
internazionali. A patto di ridisegnare completamente la
pianificazione e la governance dei porti e dei loro collegamenti con
il mercato.
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- L'applicazione di questo principio darebbe maggior vigore ai
sistemi integrati, un'esigenza che viene già avvertita dalle
autorità portuali più avvedute, che si propongono con
nuove alleanze: al Sud la IMETA fra i porti di transhipment di Gioia
Tauro, Cagliari e Taranto. Poi l'Autorità dei porti del
Levante con Bari, Barletta, Monopoli ed il prossimo inserimento di
Manfredonia. In Alto Adriatico la NAPA tra Capodistria, Trieste,
Venezia e Ravenna. Infine l'associazione Ligurian Ports tra Genova,
Savona e La Spezia.
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- L'obiettivo è l'integrazione dei porti nella catena
logistica, dai terminal ai retroporti e alle destinazioni finali.
Quello che le proposte di riforma della legge dovranno considerare è
che il nostro problema principale non sono i terminal, ma le
infrastrutture di collegamento con il mercato. È questo il
nodo sul quale ci dobbiamo confrontare. I terminal portuali
potrebbero essere tutto sommato adeguati alle nostre esigenze su
quasi tutto il territorio nazionale, sia pure con molti doppioni e
con troppe sovrapposizioni, se avessero la capacità di
operare con banchine, pescaggi e gru adeguate sulle grandi navi
delle ultime generazioni che trasportano i container allineati su 22
file.
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- Diciamolo con chiarezza: lo spreco di denaro pubblico è
stato una costante delle politiche fin qui seguite, con la
moltiplicazione delle autorità portuali dalle sedici del 1994
a venticinque e con la conseguente erogazione a pioggia dei fondi
nazionali. Il centralismo e la distribuzione "politica"
delle risorse su una miriade di porti ha minato la competitività
di tutto il sistema. Una sia pur limitata autonomia finanziaria
eliminerebbe in parte la questione, premiando gli scali maggiori
sulla base della graduatoria dei volumi di traffico. Ma maggiori
garanzie deriverebbero dal vincolo dell'autonomia finanziaria di
ciascun porto al reperimento di investimenti privati reali, cioè
di capitali di rischio e non di mutui bancari. In questo modo
sarebbero premiati i porti che non solo generano maggiori traffici,
ma che sono anche più capaci di attrarre i grandi gruppi
internazionali del terminalismo e del trasporto marittimo e
intermodale legandoli al territorio con ricadute durevoli
sull'occupazione e sull'economia locale nel suo complesso.
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- Vorrei che a questo punto fosse però ben chiaro a tutti
che con questo non voglio assolutamente proporre un sistema che
qualcuno potrebbe sostenere che si dimentica di tutti gli altri
porti, privandoli delle risorse necessarie a mantenere le loro
caratteristiche peculiari.
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- Sono invece fortemente convinto che il nuovo sistema debba
prevedere una qualche forma di sussidiarietà, seppure con
concetti e forme nuove, diversi dai finanziamenti a largo raggio
come succede oggi, con l'obiettivo di promuovere quei progetti di
specializzazione che scaturiranno dai più ampi sistemi
portuali sopra menzionati.
-
- Il vero problema dei porti è l'insufficienza dei
collegamenti infrastrutturali con il mercato, sia domestico che
europeo. Per superare questa criticità, è necessario
che la legislazione sui porti includa il tema dei corridoi, della
retroportualità e delle infrastrutture, sia ferroviarie che
stradali. Uno sviluppo significativo dei traffici si può
avere solo con servizi ferroviari efficienti. Ed invece stiamo
assistendo al progressivo smantellamento pezzo per pezzo del
trasporto ferroviario merci di Trenitalia, che offre servizi
inadeguati a prezzi esorbitanti.
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- È allora sempre più necessario superare la
frammentazione attuale con la costituzione di un unico sistema
logistico che faccia perno sulla collaborazione, o ancora meglio
sulla fusione, dei porti principali. L'esempio viene dall'Olanda,
dove proprio in questi giorni è stato formalizzato il
progetto Gateway Holland, che punta a fare dei Paesi Bassi una
piattaforma logistica integrata in cui tutte le componenti
collaborino invece di competere tra loro.
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- Il progetto nasce dalla constatazione di un fallimento: quello
del moderno ed innovativo ex terminal container Ceres di Amsterdam,
preso in concessione da Hutchison Ports, prima società
terminalistica mondiale, ma colpito dalla crisi e ormai inattivo per
mancanza di clienti. Oggi si considera un errore aver provato a
portare i container ad Amsterdam, specializzata nelle merci varie,
quando a pochi chilometri c'è Rotterdam, il principale scalo
europeo per la movimentazione dei contenitori. Sulla base di questa
esperienza le autorità pubbliche olandesi stanno definendo
una nuova strategia portuale, che tenga conto della vera novità
di questi anni: che la scelta dello scalo dove far transitare le
merci è determinato sempre più dalla rete di servizi
logistici e di infrastrutture a cui quel porto è collegato.
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- Questo significa che ogni scalo dovrà far parte di una
rete, anche con i terminal interni, per il flusso delle tipologie di
merce in cui è specializzato. Altrimenti si continuerà
a sprecare denaro pubblico in iniziative che rischiano di essere
doppioni inutili, come appunto il terminal Ceres di Amsterdam o le
attività crocieristiche del porto di Rotterdam. O, come
succede troppo spesso in Italia, con investimenti eccessivamente
costosi slegati dalle reti logistiche.
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- I fondamentali sono chiari: la domanda è il volume di
traffico che richiede di essere movimentato in un mercato, mentre
l'offerta è la capacità di movimentazione portuale,
che deriva dagli investimenti in infrastrutture, impianti e
macchine, forza operativa. Il problema è l'utilizzazione dei
terminal. In altre parole, quanta offerta è utilizzata dalla
domanda. Più è bassa e meno vengono ricompensati gli
investimenti ed utilizzata la forza lavoro: guerra di prezzi,
perdite economiche e impatti negativi sull'occupazione. Più è
alta, oltre un certo limite, vi è inadeguatezza alle
richieste del mercato e congestione, perdita di business e ricadute
negative sul territorio e sull'economia in generale.
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- Una costante dei nostri porti nell'era della containerizzazione
è il ritardo cronico nella realizzazione di progetti di
adeguamento della capacità, che fra il 2005 ed il 2007 ha
portato a situazioni vicine alla saturazione e congestione in alcuni
terminal.
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- Con estrema chiarezza, va sottolineato che una corretta
pianificazione degli investimenti, sia finanziari che occupazionali
deve essere correlata ai tempi di crescita della domanda. Inoltre,
andrebbero attentamente valutati in sede di mercato omogeneo i costi
connessi ai vari progetti. Con l'obiettivo di smettere una volta per
tutte con la dispersione delle risorse, impegnando i fondi solo su
pochi progetti e nei tempi più opportuni. Con l'obbligo
assoluto della connessione ad una efficiente rete di trasporto
inland.
- L'efficienza del sistema passa per la sua modernizzazione, con
l'eliminazione dei colli di bottiglia, non solo fisici, che ancora
lo caratterizzano. La collaborazione sempre più stretta con
l'Agenzia delle Dogane con l'adeguamento dei sistemi informatici e
l'introduzione in molti porti dello sportello unico, stanno
producendo buoni risultati. Si tratta di un nodo essenziale: non è
più possibile che nei nostri scali i sistemi informatici
veterinario e fito sanitario non dialoghino fra loro, per fare solo
un esempio. Ma c'è un elemento in più che determina
vistose distorsioni del mercato. Si tratta delle differenze fra i
codici doganali dei diversi Paesi dell'Unione Europea. La realtà
è che sono sistemi non omogenei. La mancanza di classi di
rischio comuni sta determinando fenomeni di autentico dumping
normativo, con la sempre più diffusa applicazione della
sottofatturazione di prodotti destinati a certi mercati ma scaricati
in porti dove vengono applicati criteri più permissivi. Un
esempio per tutti è quello dei prodotti tessili per il
mercato italiano, fatturati a prezzi ridicoli e sempre più
spesso sbarcati in Polonia per essere poi avviati verso l'Italia via
camion. E comunque, con maggiore rispetto della realtà
commerciale, bisogna considerare i vantaggi competitivi ormai
irreversibili acquisiti dai sistemi logistici del Nord Europa con i
centri di assemblaggio e distribuzione pan-europei in settori come
l'elettronica di consumo.
-
- Con un'aggravante, che abbiamo messo in evidenza in
collaborazione con la federazione nazionale degli spedizionieri
Fedespedi: che la nuova normativa sull'Iva introdotta a Febbraio
mette in difficoltà sia gli agenti marittimi sia gli
spedizionieri. La criticità maggiore riguarda la
territorialità, ossia il luogo dove va pagata l'Iva. Se nel
vecchio regime a pagare nel proprio Paese era chi prestava il
servizio, adesso l'obbligo si sposta al beneficiario del servizio,
che nello shipping è spesso un'azienda estera. La normativa è
congegnata in modo tale che agenti, broker e spedizionieri rischiano
di perdere lo status di esportatori abituali, uno strumento che
permette loro di fare acquisti senza assoggettamento Iva,
calmierando così l'ammontare dei crediti maturati nei
confronti dell'erario. In pratica, a partire dal gennaio 2011,
quando cominceranno a farsi sentire gli effetti del provvedimento,
le imprese avranno un credito alto nei confronti dello Stato, quindi
soldi immobilizzati, e scarsa liquidità per portare avanti la
loro attività. Si tratta di un provvedimento che crediamo
debba essere rivisto, in modo da garantire la corretta operatività
e l'uniformità della sua applicazione in tutta l'Unione
Europea, senza ulteriori aggravanti per le aziende del nostro Paese.
-
- Un tema che riteniamo opportuno sottolineare in questa sede è
quello della difesa del registro internazionale, e del suo corretto
finanziamento. La normativa, introdotta poco più di dieci
anni fa, ha fatto fare uno straordinario balzo in avanti alla nostra
marina mercantile, che ha triplicato il tonnellaggio e a buon
diritto è considerata oggi una delle più moderne e più
sicure del mondo. In particolare la flotta passeggeri, sia per i
traghetti che per le crociere, è stata rinnovata in maniera
sostanziale, e la nostra azienda cantieristica ha acquisito la
leadership mondiale del settore. La perdita del registro
internazionale significherebbe la fine della nostra marina
mercantile. Non c'è via di mezzo, perché le
alternative non sono in Liberia o a Panama ma in Europa, dove tutte
le altre nazioni marittime adottano lo stesso sistema.
-
- Vorrei chiudere la relazione con un particolare apprezzamento
per l'ottimo lavoro che la Guardia Costiera ha svolto anche
quest'anno per la sicurezza della navigazione e per tutti gli altri
compiti che ad essa sono affidati. Le Capitanerie di Porto e gli
agenti marittimi sono sempre presenti in tutti i 144 porti italiani
ed operano in strettissima collaborazione per garantire le migliori
condizioni operative nei porti per l'arrivo e la partenza delle
navi. Per questi e per tanti altri motivi, desidero anche quest'anno
ringraziare pubblicamente il Comandante Generale del Corpo delle
Capitanerie di Porto, Ammiraglio Raimondo Pollastrini, e tutti gli
Ufficiali, Sottufficiali e Marinai che tutti i giorni operano con
grande professionalità e competenza al servizio della
comunità marittima. Desidero altresì rivolgere un
sentito ringraziamento al dott. Cosimo Caliendo, Direttore Generale
del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti - Direzione Porti
- e ai suoi stretti collaboratori con i quali quotidianamente ci
confrontiamo su tutte le materie e problematiche che sono alla base
della nostra attività.
-
- Infine, a nome di tutta la categoria che mi onoro di
rappresentare, voglio esprimere sentiti e sinceri ringraziamenti
alla Direzione Generale per i Porti ed al Comando Generale, per aver
saputo tutelare la nostra professione nella delicata e difficile
fase di recepimento della Direttiva Comunitaria sui servizi, la
cosiddetta Bolkenstein.
- Cari amici e colleghi,
-
- la ripresa che ci aspettiamo sarà frutto del lavoro delle
imprese e dell'impegno del Governo per l'ammodernamento del nostro
sistema. Come ha bene sottolineato il Ministro Tremonti, il futuro
che ci attende dipende in massima parte da noi stessi, e volerlo
anticipare a prescindere dall'uomo e dalle sue necessità è
arroganza della conoscenza e superstizione. Il mercato non sta in
equilibrio da solo, e non bisogna dimenticare che la crisi è
iniziata con lo spostamento di importanti quote di capitale dal
profitto alla rendita. È pur vero che anche nell'economia
post industriale vi sono ragionevoli tassi di prevedibilità.
Ma la progressiva finanziarizzazione dell'economia accentua sempre
più l'imprevedibilità di un sistema dominato da gruppi
di rapaci che perseguono i loro interessi a prescindere dalle
condizioni del mercato. La ripresa dell'economia industriale, che è
in corso soprattutto in Oriente, è fondata su forti iniezioni
di tecnologia che stanno accelerando la trasformazione sia del
sistema produttivo che delle modalità di trasferimento delle
merci dalla produzione al consumo. L'Europa, e l'Italia in
particolare, rischiano di uscire dalla crisi in maniera fittizia,
senza crescita. Una bonaccia nella quale tutti i nostri mali
diventerebbero cronici con la prospettiva di un orizzonte senza
sviluppo dell'occupazione e della qualità della vita. Le
grandi crisi hanno sempre comportato anche l'opportunità di
rimettere in discussione i sistemi di valori su cui le società
si fondano. Credo che in un periodo di così profonda
trasformazione sia necessario ritrovare una spinta morale simile a
quella che consentì ai nostri genitori di far diventare in
pochi anni l'Italia un esempio di sviluppo, con la rapida e
straordinaria trasformazione della nostra economia da agricola ad
industriale avanzata. Quello che è stato fatto allora può
essere di nuovo possibile oggi. Cominciando a riportare al centro
del nostro lavoro quotidiano l'etica del lavoro e del sacrificio, il
senso del dovere e la solidarietà.
-
- Grazie a tutti per l'attenzione.
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