FEDERAGENTI
Federazione Nazionale Agenti Raccomandatari Marittimi
Agenti Aerei e Mediatori marittimi
Convegno Nazionale
22 maggio 2002
Villa Spalletti Trivelli - Roma
Relazione del presidente
Luigi Negri
Autorità, amici, colleghi,
svolgerò la mia breve relazione come se lo scorso anno
fosse stato uguale ai tanti che l'hanno preceduto.
Sappiamo invece che non è stato così.
Il 2001 è stato diverso e la sua terribile diversità
si ripercuote su quest'anno che stiamo vivendo e certamente continuerà
a ripercuotersi su quelli futuri.
Vorrei sottolineare che la profonda crisi del settore marittimo-portuale
è stata causata principalmente da un forte rallentamento
della crescita dei traffici marittimi all'inizio dello scorso
anno e da un eccessivo tonnellaggio messo a disposizione dei mercati
dagli armatori, quantomeno nel settore container.
Questa drammatica situazione è stata successivamente aggravata
dai tragici avvenimenti dell'11 Settembre e da quelli recenti
in Paesi più vicini a noi ed anche di casa nostra, che
ricordiamo con molta tristezza e preoccupazione.
Comunque, nonostante tutto, il mondo continua a vivere, forse
meno bene di prima, forse con più paure di prima ma forse
anche con più determinazione di prima.
Ma non intendo spendere ulteriori parole su questo argomento,
parole che comunque sarebbero del tutto inadeguate.
FLOTTA E TRAFFICO MARITTIMO
Già lo scorso anno affermavo che i governi precedenti avevano
iniziato un cammino e che il nuovo governo doveva proseguirlo,
prestando molta attenzione al settore marittimo-portuale ed avendo
ben presente la duplice necessità di inserire il trasporto
marittimo in un sistema integrato ed efficiente e di rendere le
società di navigazione italiane maggiormente competitive
nei confronti delle concorrenti europee.
Non sembra che le cose siano andate nel senso auspicato dagli
operatori del settore.
Il nostro governo non sembra aver preso in considerazione il fatto
che l'Italia, priva di risorse naturali, ha come sua unica grande
fortuna il mare e la sua posizione strategica, che la rende quasi
una piattaforma nel cuore del Mediterraneo verso l'Europa.
La creazione del Registro internazionale nel 1998 e l'applicazione
delle sue disposizioni in materia di riduzione del costo del lavoro
al cabotaggio nel 1999, benché giunte in ritardo rispetto
alla gran parte dei paesi europei, avevano avviato la nostra politica
marittima verso positivi traguardi.
Ma già allora i provvedimenti adottati non erano considerati
sufficienti per mettere la flotta italiana, in particolare quella
impiegata nei servizi di cabotaggio, in competitività reale
con le altre flotte europee.
Ci sembra veramente strano e quasi drammatico che Paesi Europei
che si affacciano sul mare, che certamente non posseggono neanche
un decimo delle coste che caratterizzano l'Italia, abbiano sviluppato
una politica marittimo-portuale molto più incentivante
di quella italiana.
Basti pensare che, con le nuove regolamentazioni comunitarie riguardanti
il cabotaggio marittimo e lo Short Sea Shipping, la grande maggioranza
delle flotte esistenti e ricercate nel mercato dei noleggi è
di bandiera tedesca. Ciò mette naturalmente l'armamento
tedesco in una situazione di grande privilegio rispetto a quello
italiano.
Siamo veramente meravigliati dal fatto che chi ci governa non
capisca quanto sia importante, direi fondamentale per un paese
come il nostro, sviluppare una delle poche ricchezze in nostro
possesso.
Abbiamo capacità e professionalità tali da fare
invidia al resto del mondo. Si tratterebbe solo di poterle esprimere.
Proprio in riferimento a questo, nel dicembre scorso, la Confederazione
degli armatori italiani avvertiva che, in assenza di un chiarimento
definitivo della politica marinara da parte del governo e perciò
dell'approvazione di misure adeguate per le compagnie di navigazione
operanti sulle rotte internazionali e di particolari agevolazioni
per il settore del cabotaggio, ai grandi gruppi armatoriali italiani
non rimaneva altra alternativa che trasferire l'attività
in altri paesi, nei quali tali misure sono in vigore.
L'opinione della Confitarma è stata confermata da tutti
gli operatori del settore che hanno posto l'accento in particolare
sul traffico di cabotaggio, che non deve intendersi soltanto quello
tra porti nazionali ma anche quello tra paesi europei e all'interno
del Mediterraneo.
Relativamente al primo, come è ben noto, con la liberalizzazione
dei mercati marittimi nazionali, dal 1999 possono operare nel
nostro paese navi iscritte ai registri internazionali di altri
paesi dell'Unione Europea e quindi inserirsi sulle rotte italiane
navi che usufruiscono di condizioni operative, dal punto di vista
retributivo, fiscale, previdenziale, fortemente vantaggiose rispetto
a quelle previste per le navi italiane.
Da uno studio commissionato alla fine dello scorso anno dalle
Associazioni Armatoriali risulta che il costo di un equipaggio
imbarcato su una nave italiana è superiore di 2/3 volte
a quello imbarcato su navi della maggior parte dei paesi europei.
A questo fatto, già di per sé negativo, si deve
aggiungere il più elevato carico fiscale, relativamente
al quale ormai da tempo viene richiesta dagli armatori italiani
l'applicazione di un regime fiscale forfettario basato sul tonnellaggio
della nave, la cosiddetta tonnage tax.
A questo riguardo dobbiamo peraltro precisare che nel disegno
di legge delega del governo sulla riforma del sistema fiscale,
presentato recentemente al Parlamento, è prevista anche
l'introduzione della tassa forfetaria.
Si tratterrà di vedere se e quando entrerà in vigore
la legge di riforma ed i successivi decreti legislativi.
Questa è la situazione per la flotta italiana.
Sicuramente per altri motivi e comunque con ben altri effetti
in campo mondiale la situazione delle flotte è anch'essa
drammatica.
In particolare le flotte container scontano il gigantismo che
ha pervaso il mondo armatoriale e che ha portato oggi ad un eccesso
di offerta rispetto alla domanda.
Le previsioni in questo settore sono molto negative, soprattutto
per i porti dell'alto Tirreno, e dobbiamo quindi aspettarci un
lungo periodo di difficoltà perché questo trend
inverta la sua tendenza.
Ma tornando alle nostre cose ed alla nostra flotta, se gli Stati
dell'Unione Europea hanno deciso misure adeguate a sostegno delle
rispettive marinerie proprio per evitare concorrenze sleali in
questo campo, diventa indispensabile anche per il nostro paese
trovare strategie e strumenti analogamente adeguati.
Per quanto riguarda poi il cabotaggio internazionale, lo Short
Sea Shipping, la situazione non è meno difficile.
Come è stato evidenziato nel convegno tenuto a Genova nel
novembre scorso, la domanda di trasporto in Europa crescerà
del 40% da oggi al 2010 e non è pensabile che si risponda
a questa crescita unicamente con un aumento del traffico stradale.
Come da tempo sostiene il nostro Umberto Masucci, responsabile
dell'Ufficio italiano di promozione dello short sea shipping,
che si affianca agli altri operanti in Europa, quella del trasporto
via mare è una scelta obbligata.
Tra l'altro puntare sul trasporto marittimo a corto raggio significa
anche rafforzare la posizione strategica del nostro paese che
si trova al centro del Mediterraneo, da considerare uno snodo
di assoluta rilevanza sia per le direttrici nord-sud, sia per
quelle est-ovest.
Tutto ciò in linea con gli orientamenti politici indicati
nel Libro Bianco della Commissione Europea del luglio scorso che
per la prima volta ha riconosciuto validità al trasporto
intermodale, inserendo porti e tratte marittime nella rete dei
collegamenti continentali.
Ma, mentre sia a Bruxelles con il Libro Bianco sia in Italia con
il Piano generale dei trasporti e della logistica sia nei numerosi
convegni sull'argomento, si discute sulle alternative da offrire
al trasporto su strada e si enfatizza il concetto di autostrade
del mare, il traffico su gomma cresce.
Un motivo evidentemente esiste: i costi del trasporto via mare
sono ancora troppo elevati.
Tutti gli operatori invocano provvedimenti: adeguamento delle
infrastrutture portuali alle esigenze di questo tipo di traffico
nel contesto di una politica di potenziamento dei nostri scali,
finalizzando gli interventi al miglioramento dei collegamenti
porto-entroterra, forte semplificazione delle procedure legate
all'arrivo e alla partenza delle navi, perchè il trasporto
marittimo a corto raggio non può prescindere dalla velocità
dei collegamenti, incentivi mirati agli armatori e autotrasportatori.
Forse la strada per far affermare compiutamente questa importante
modalità di trasporto delle merci, che ha margini di crescita
molto superiori ad altri tipi di trasporto, è ancora lunga
e difficile per interessi diversi profondamente radicati.
Un Paese con 144 porti e migliaia di chilometri di costa, inserito
in un mercato globale a forte competizione, non ha, e forse non
ha mai avuto, una cultura marittima adeguata all'importanza di
un settore che produce enormi ricchezze.
È necessario che il governo si renda una volta per tutte
consapevole di questo e non consideri il comparto marittimo come
una cenerentola rispetto alla strada e alla ferrovia.
E allora occorre da parte governativa un vero e proprio salto
di qualità che richiede in primis il coinvolgimento di
tutti gli operatori della logistica - porti, armatori, agenti
marittimi, spedizionieri, autotrasportatori - per definire una
strategia che non sia fatta di parole e di slogan ma che predisponga
un piano operativo graduale e concreto, che prefiguri traguardi
precisi e verificabili.
Non dimentichiamo certo le difficoltà della situazione
mondiale del trasporto marittimo ma qui si tratta anche di dare
soluzione a problemi che investono pure l'ambiente in cui viviamo
e la nostra sicurezza.
Sono certo che con azioni coerenti e coordinate in sede comunitaria
e nazionale l'obiettivo potrà essere raggiunto.
SETTORE PORTUALE
Affermavo non più tardi dell'anno scorso che con il regolamento
attuativo della legge 84 si era posta la parola fine al processo
di riforma dell'organizzazione portuale iniziato nel 1994 e aggiungevo
che la cosa più importante era che tale regolamentazione
trovasse applicazione omogenea nei diversi scali marittimi italiani.
È peraltro da sottolineare subito che le regole introdotte
dalla legge, indubbiamente complesse, devono essere calate in
realtà locali non del tutto omogenee per quanto riguarda
sia particolarità strutturali degli scali sia diversi assetti
organizzativi degli stessi.
Ma pur in questa situazione di base molto diversificata occorre
che tali regole trovino un'applicazione uniforme, per non vanificare
un lavoro durato anni.
E qui purtroppo sembra che le cose non vadano in questo senso.
Le norme che vietano la commistione fra le imprese ex art. 18
(imprese concessionarie), le imprese ex art. 16 (imprese portuali)
e le organizzazioni di fornitura di manodopera (ex art. 17), non
sembra che siano applicate in modo coerente in tutti i porti italiani.
Lo spirito della legge prevedeva che le imprese ex art. 16 aiutassero
(sotto forma di appalto dei servizi o di segmenti del ciclo) le
imprese concessionarie e titolari dell'intero ciclo portuale e
che le imprese ex art. 17 fornissero manodopera sia alle imprese
ex art. 16, sia alle imprese concessionarie ex art. 18, evitando
in tal modo che fra esse vi fosse commistione o identità.
In molti porti italiani, seppure sotto forme diverse, un'unica
impresa opera sia come concessionario, sia come impresa portuale
di servizi, sia come fornitore di manodopera.
Tutto ciò per affermare che l'omogeneità nell'applicazione
delle norme è tutta da verificare e che vi sono interessi
ben noti che tendono a non fare chiarezza per continuare a difendere
privilegi consolidati.
D'altra parte anche se la stessa nota proposta di Direttiva europea
sulla regolamentazione dei servizi e del lavoro nei porti, sul
piano dei principi - fine dei monopoli e spazio alla libera concorrenza
- sembra che trovi il generale consenso, le difficoltà
nascono anche in questo caso al momento di tradurre tali principi
in misure operative.
Già gli emendamenti alla proposta di Direttiva, approvati
dal parlamento europeo nel novembre scorso, hanno significativamente
modificato i vincoli inizialmente previsti.
Così, per esempio, per quanto riguarda il lavoro nei porti,
verrà lasciata ad ogni singolo Paese la facoltà
di disciplinarlo con regole proprie, avendo riconosciuto la necessità
di non stravolgere assetti sociali codificati da sempre.
Così anche, per quel che concerne l'organizzazione delle
imprese, si è rinunciato alla tesi che in ogni porto debbano
esistere almeno due operatori di servizi per ogni categoria di
merci movimentate.
Così ancora non è stato accettato un emendamento
proposto dai porti del nord Europa con il quale si chiedeva che
i servizi portuali venissero esclusi dalla Direttiva, consentendo
in questo modo alle Port Authority di gestire direttamente tali
servizi.
Successivamente però il testo così modificato dal
Parlamento Europeo è stato oggetto di ulteriori emendamenti
da parte della Commissione Europea, per cui al momento la partita
è ancora aperta tra porti mediterranei e porti nordeuropei,
soprattutto sul tema della liberalizzazione della movimentazione
delle merci e quindi sul ruolo che devono avere le autorità
portuali.
È evidente che la stretta finale per l'approvazione definitiva
della Direttiva non è e non sarà facile, ma dobbiamo
però dire che ad oggi la posizione italiana è più
coerente ai principi comunitari che non quella di altri paesi
nord europei.
Non possiamo certo, in una relazione di questo tipo, analizzare
compiutamente i particolari elementi di convergenza e quelli di
contrasto.
Dobbiamo però essere ben consapevoli che il ruolo di tutti
gli operatori italiani e mediterranei - autorità, terminal
operator, imprese di servizio, lavoratori e utenti/clienti - non
è e non deve essere considerato inferiore a quello dei
paesi nord-europei che già hanno beneficiato nel tempo
di normative e condizioni particolarmente favorevoli.
Il governo è chiamato a difendere in sede europea gli interessi
del settore portuale italiano che faticosamente ha forse raggiunto
un punto di equilibrio e che, se coartatamente modificato, può
farci tornare indietro di anni.
QUADRO DI RIFERIMENTO NAZIONALE
Anche se non intendiamo dire parole tardive e comunque inadeguate
sull'argomento, è evidente che l'andamento lento dell'economia
mondiale nel 2001 è stato indiscutibilmente influenzato
da quanto accaduto nel settembre e dalle conseguenze che ne sono
derivate.
Come ha rilevato l'OCSE, per la prima volta in questi ultimi vent'anni,
nella seconda metà del 2001 i paesi industrializzati hanno
conosciuto una crescita leggermente negativa e così il
2002 sarà contrassegnato da una sostanziale debolezza dovuta
anche al sentimento di insicurezza prevalente dopo settembre.
Di conseguenza tutte le stime macroeconomiche formulate a suo
tempo dal governo, dal centro studi di Confindustria, dal Fondo
monetario internazionale, hanno dovuto essere riviste e ridimensionate.
Soprattutto il Fondo monetario internazionale è stato pessimista
nelle sue previsioni ritenendo possibile una crescita molto indebolita
in tutte le regioni del mondo.
Secondo l'Istituto, nel 2002 la crescita mondiale non supererà
il 2,4%, anche se forse potrà essere possibile arrivare
al 2,7%, quella europea non andrà oltre l'1,3% e quella
italiana si fermerà all'1,2%.
Queste stime sono poi state corrette in positivo di due decimi
di punto circa ma rimangono comunque molto aleatorie, tenuto conto
della situazione internazionale e dei suoi riflessi sull'economia.
La stessa Confindustria ha rivisto la propria previsione ritenendo
che il prodotto interno lordo italiano non potrà superare
quest'anno l'1,3% quando ancora ad ottobre la sua stima considerava
valido l'1,9%.
Il solo governo ha ritenuto fino all'ultimo valide la previsioni
al riguardo fatte nell'ottobre nella nota di aggiornamento al
documento di programmazione economica e finanziaria che fissavano
nel 2,3% la crescita del nostro paese per il corrente anno.
È anche vero che il Governatore della Banca d'Italia, spiegando
che le previsioni del Fondo monetario internazionale sono extrapolazioni
delle tendenze passate e danno un andamento dell'economia mondiale
dal quale fanno discendere l'andamento dei singoli paesi, ha sostenuto
che le considerazioni del medesimo sono troppo pessimistiche e
che si deve prevedere una ripresa nella seconda metà del
2002.
Sulla stessa linea di valutazione del Governatore si pronuncia
l'OCSE che, pur mantenendo per il nostro paese una previsione
di crescita per quest'anno dell'1,5%, ritiene che tale dato sconti
la frenata del primo semestre e che al contrario la ripartenza
sarà tanto valida da incidere in misura decisiva sulla
crescita nel 2003 che segnerà per l'Europa un aumento della
ricchezza intorno al 3% e per l'Italia al 2,8%.
Analoghe valutazioni previsionali, diversificate tra loro a seconda
di chi le formula - governo, fondo monetario internazionale, confindustria,
istituti di ricerca, etc. - sono state considerate per il rapporto
deficit/prodotto interno lordo, inflazione, disoccupazione.
Non vogliamo però addentrarci oltre su questi elementi
macroeconomici che tutti conoscono e neppure fare valutazioni
politiche sul nuovo Esecutivo che governa il paese ormai da un
anno.
Come imprenditori però sappiamo che molte cose rimangono
da fare.
Esiste innanzitutto un problema di eccessiva pressione fiscale
che riguarda tutti, in particolare le imprese.
Il governo ha nel suo programma la riduzione e la semplificazione
delle aliquote fiscali: è indispensabile che questo programma
venga realizzato, mettendo particolare attenzione al sistema produttivo
per accrescerne la competitività nel campo internazionale.
La manovra sul versante fiscale dovrà essere accompagnata
dalla dovuta attenzione alla spesa.
Anche su questo fronte, mentre l'OCSE ha stimato nell'1,4% il
rapporto tra deficit e prodotto interno lordo per quest'anno e
nell'1,3% per il prossimo, il Fondo monetario internazionale nelle
sue ultime stime di aprile è stato più ottimista
ritenendo che tale rapporto si attesterà sull'1,2% quest'anno
per scendere allo 0,2% il prossimo.
Per parte sua il governo ha mantenuto la propria previsione nello
0,5% per l'anno in corso e nel pareggio per il 2003.
I traguardi sono ambiziosi: è necessario mettere in campo
tutte le forze per raggiungerli.
Non vi è dubbio che ci attende un futuro difficile, e le
difficoltà sono ben note a tutti e aggravate dal conflitto
tra governo e organizzazioni sindacali, ma nello stesso tempo
stimolante.
La globalizzazione non è più ormai una parola significativa
per pochi, è ormai una sfida che investe tutti e fra tutti,
per primi, gli imprenditori.
È pur vero che noi agenti marittimi la globalizzazione
la conosciamo da sempre, essendo abituati a confrontarci con le
problematiche di un mercato mondiale.
Ma se anche in questa dimensione abbiamo usufruito o approfittato
di posizioni di comodo, questo non è più consentito.
Dobbiamo ricordarci, e ricordare a tutti, che gli agenti marittimi
rappresentano la totalità dell'armamento estero che scala
i nostri porti e grossa parte di quello nazionale, per un totale
complessivo di circa l'80% dell'intero trasporto marittimo e per
un movimento di valuta che, rapportato al numero di aziende e
di addetti, ci fa essere tra i maggiori produttori di ricchezza
del nostro paese.
E allora, se la dimensione complessiva è questa, dobbiamo
anche adeguarci come singole aziende, essere reattivi ai cambiamenti
per non subire il progresso ma per governarlo, svolgere la nostra
attività in modo ancora più professionale di quanto
l'abbiamo svolta fino ad oggi.
Certamente non partiamo da zero.
Già attualmente gli impegni delle nostre aziende in termini
di certificazioni, di formazione, di auto regolamentazione attraverso
codici di comportamento sono rilevanti in modo significativo.
Non dobbiamo fermarci e sono certo che non lo faremo.
* * * * * * * *
Chiudo questa mia relazione, che ho voluto mantenere in termini
brevi per consentire tutti gli autorevoli interventi previsti,
con un sincero ringraziamento proprio alle illustre personalità
intervenute a questo nostro convegno che prenderanno la parola
dopo di me.
Grazie.