L'incredibile superficialità, per non dire insipienza,
con la quale è stato trattato, discusso, esaminato e valutato
il tema della privatizzazione dei porti italiani, privatizzazione
prospettata nei giorni scorsi dal vice presidente del Consiglio dei
ministri, Antonio Tajani, è sintetizzata oggi in un post del
presidente della Regione Siciliana, Renato Schifani, sul suo profilo
Facebook.
Vera epitome di questo dibattito, la discettazione di Schifani
lascia intendere che il governatore siciliano non abbia ben chiaro
l'argomento sul quale ha voluto dire la sua, così come non
l'avevano altrettanto chiaro altri che, come il presidente della
Regione Siciliana, ricoprono incarichi istituzionali di assoluto
rilievo nazionale.
Eppure con il suo preambolo Schifani non ha mancato di
evidenziare che la questione, cruciale, gli è ben nota: «le
ultime settimane in Italia - è l'introduzione del post - sono
state caratterizzate da un dibattito sul futuro dei porti, che
costituiscono uno degli asset infrastrutturali più rilevanti
del nostro Paese. Da presidente della più grande isola del
Mediterraneo, ritengo che un tema così importante vada
affrontato con profonda capacità di analisi e inquadrato in
un contesto geopolitico che superi i confini nazionali, in ragione
della centralità che il sistema portuale riveste nella nostra
economia».
Inoltre il presidente della Regione Siciliana assicura di aver
assolutamente nitidi i termini della faccenda, avendo ben presente
ciò che è accaduto anche oltre i confini nazionali
laddove si è proceduto alla “privatizzazione dei
porti”. «Se si guarda all'Europa circa la
privatizzazione delle infrastrutture strategiche - fa notare
l'informato Schifani - il precedente greco, ci dimostra che, la
decisione della Troika di cedere la proprietà del principale
porto nazionale, il Pireo, ai cinesi di Cosco, quale contropartita
per sostenere, con prestiti onerosi, la crisi di credibilità
del debito sovrano ellenico, ha rappresentato per la Grecia e per la
stessa Europa un grave errore di geopolitica».
Forte di questa approfondita disamina, Schifani esprime
schiettamente la propria convinzione: «onestamente - spiega -
credo che nessuno in Italia abbia intenzione di cedere la proprietà
dei principali porti al mercato, con il rischio, non remoto, di
trovarsi qualche altro Stato sovrano, magari disallineato rispetto
alle strategie nazionali, al comando delle infrastrutture marittime
del paese. Se a ciò aggiungiamo che l'Italia non detiene
materie prime ma ne importa il 90% attraverso i porti, le trasforma
nella seconda industria manifatturiera d'Europa, e le esporta,
sempre attraverso i nostri scali, si comprende bene che privatizzare un porto
significherebbe far entrare singole realtà private nella
filiera industriale del paese, con tutte le derive del caso».
Il documentato intervento di Schifani chiude la porta
all'ipotesi di privatizzazione dei porti italiani lanciata da
Antonio Tajani, qualunque essa sia, uscio che era già stato
sprangato in faccia al vice premier nientemeno che dalla premier,
Giorgia Meloni, e dall'altro vice premier Matteo Salvini, che per
bocca del suo vice ministro Edoardo Rixi aveva specificato di
concordare con la presidente del Consiglio secondo la quale «il
tema della privatizzazione dei porti non è all'ordine del
giorno».
Un “no” alla proposta di Tajani che Schifani forse,
dato che Tajani è pur sempre segretario di Forza Italia, il
partito in cui milita Schifani, ha inteso stemperare precisando che
«se la cessione della proprietà dei porti sembra dunque
una strada non consigliabile dal punto di vista della tutela
dell'interesse pubblico, resta però aperta, la necessità
di avviare una discussione su come rilanciare gli scali marittimi
italiani. A partire dalla questione della privatizzazione della
forma giuridica delle autorità di sistema portuale».
«A mio avviso - osserva Schifani - un assetto
esclusivamente pubblicistico della governance nei porti rallenta non
solo la gestione ordinaria ma anche le scelte e la operatività
degli investimenti infrastrutturali. L'esperienza italiana dimostra
che incardinare nel codice civile le aziende pubbliche migliora la
performance, come nei casi di Poste e Ferrovie italiane, che hanno
migliorato sia i bilanci sia il loro posizionamento strategico sul
mercato. Anche per questa ragione la trasformazione delle autorità
di sistema portuale in S.p.A, secondo me, consentirebbe agli scali
portuali nazionali di competere meglio su scala internazionale,
superando un sistema di regole pubblicistiche che oggi ne frena lo
sviluppo. I tempi cambiano, e richiedono architetture istituzionali
differenti. Le sfide strategiche stanno mutando velocemente, ed
occorre attrezzarsi per una profonda trasformazione dei modelli di
gestione delle infrastrutture del paese».
Tornando alle vicende internazionali citate da Schifani,
bisognerebbe far notare al presidente della Regione Siciliana che in
Grecia non è stata affatto conferita alla COSCO «la
proprietà del principale porto nazionale, il Pireo», ma
che il gruppo cinese si è aggiudicato quote di capitale della
società di capitali Piraeus Port Authority, quote
inizialmente pari al 51% del totale e poi salite nel 2021 al 67% del
capitale dell'Autorità Portuale del Pireo che gestisce il
porto greco, scalo di cui non ha affatto la proprietà e che,
diversamente, gestisce nell'ambito di un contratto di concessione
con lo Stato greco che, in occasione dell'ingresso della COSCO nel
capitale della PPA, è stato aggiornato per tenere conto degli
“interessi nazionali”.
Perché Schifani lo sappia, e con lui anche gli altri
esperti di “privatizzazione dei porti”, ora come ora la
trasformazione delle Autorità di Sistema Portuale italiane in
Società per Azioni non precluderebbe assolutamente alla COSCO
di acquisire quote in qualche AdSP italiana. Almeno questo è
necessario che costoro lo sappiano.
Bruno Bellio
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