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Il gruppo Grendi sollecita l'Autorità Portuale di Genova a verificare i piani di impresa dei terminalisti al fine di liberare aree
L'azienda, alla vigilia dello sfratto da Ponte Libia, auspica un'ulteriore proroga della concessione con il ricorso all'articolo 45 bis del Codice della Navigazione o al comma 9 dell'articolo 18 della legge 84/94
13 giugno 2011
Il gruppo armatoriale e terminalistico Grendi corre il grave rischio immediato di dover lasciare il porto di Genova e di non trovare nel breve termine un approdo alternativo per la sua linea marittima regolare con il porto di Cagliari.
Domani scadrà la sua concessione al terminal genovese di Ponte Libia e sinora non hanno avuto esito positivo le trattative che il gruppo ha condotto per ottenere spazi in aree gestite da altri terminalisti genovesi, tra cui quelle intavolate con il Terminal Frutta, che opera come Grendi nell'area portuale di Sampierdarena, con il VTE, che gestisce il terminal dell'area di Voltri, con il gruppo Spinelli, con il quale Grendi ha partecipato (perdendola) alla gara per l'assegnazione del terminal Multipurpose nel cui ambito ricade Ponte Libia, e con la stessa cordata Messina-Gavio che ha vinto la gara per il Multipurpose e che preme per insediarsi sull'area ( del 1° giugno 2010).
Dopo aver percorso molteplici strade per giungere ad un accordo con altri operatori, al gruppo Grendi non rimangono che esigui margini d'azione che l'azienda ha illustrato stamani alla stampa alla quale ha evidenziato che, con la sua uscita dal porto, Genova perderebbe un'impresa con traffico di 100.000 teu all'anno, con 120 dipendenti in Italia di cui 35 a Genova, con due navi e 60 persone di bordo a rotazione, con 200 persone di indotto a Genova e con 200 scali annui nel porto del capoluogo ligure che significano lavoro per piloti, ormeggiatori e rimorchiatori.
Un'alternativa per consentire al gruppo di rimanere a Genova, secondo Grendi, ci sarebbe. O meglio: ce ne sarebbero due. L'Autorità Portuale potrebbe decidere di prorogare nuovamente la concessione, strada che però - ha più volte ribadito l'ente di Palazzo San Giorgio - non è più percorribile, o comunque potrebbe garantire la permanenza del gruppo Grendi al Ponte Libia ricorrendo all'articolo 45 bis del Codice della Navigazione (“Affidamento ad altri soggetti delle attività oggetto della concessione”), in base al quale “il concessionario, in casi eccezionali e per periodi determinati, previa autorizzazione dell'autorità competente, può affidare ad altri soggetti la gestione delle attività secondarie nell'ambito della concessione». In tal caso dovrebbe essere il nuovo concessionario, e non l'Autorità Portuale, a consegnare a Grendi la gestione di un'area, ma anche in questa ipotesi - secondo i vertici di Grendi - l'ente portuale potrebbe svolgere un ruolo essenziale promuovendo tale affidamento.
La seconda alternativa - secondo Grendi - consisterebbe nella verifica da parte dell'Autorità Portuale di quali siano le aziende meritevoli di gestire aree dello scalo valutandone i volumi di traffico movimentati e l'occupazione generata. In tal caso - per Grendi - si libererebbero aree con il ricorso al comma 9 dell'articolo 18 della legge di riforma portuale n. 84 del 1994 il quale stabilisce che “in caso di mancata osservanza degli obblighi assunti da parte del concessionario, nonché di mancato raggiungimento degli obiettivi indicati nel programma di attività, di cui al comma 6, lettera a), senza giustificato motivo, l'Autorità Portuale o, laddove non istituita, l'Autorità Marittima revocano l'atto concessorio”.
Mio figlio può protestare se gli controllo il diario, ma io ho il dovere di farlo. Questa grossomodo è la replica di Costanza Musso, direttore commerciale del gruppo Grendi, quando le abbiamo ricordato la levata di scudi dei terminalisti portuali genovesi nel momento in cui l'ex presidente dell'Autorità Portuale del capoluogo ligure, Giovanni Novi, preannunciò un controllo dei piani d'impresa delle aziende del porto.
La risposta di Costanza Musso sintetizza quello che la sua azienda ritiene che l'attuale gestione dell'Autorità Portuale di Genova, guidata dal presidente Luigi Merlo, dovrebbe decidersi a fare nei confronti dei terminalisti: iniziare a verificare i piani d'impresa presentati dalle varie società per verificare, appunto, se i volumi di traffico movimentati da ciascun terminalista, che opera su aree demaniali, sono congruenti con la collocazione e l'estensione dell'area portuale affidata in concessione.
«Il porto - rammenta il comunicato del gruppo Grendi affidato ai giornalisti - è un bene demaniale che viene dato in concessione ai privati sulla base di piani di impresa. Se non monitoriamo i piani di impresa, favoriamo l'inefficienza del sistema e la corsa alla speculazione immobiliare di grandi gruppi».
Il rischio - hanno confermato Costanza Musso e suo fratello Eugenio, amministratore del gruppo Grendi - è che «gli investimenti nei terminal diventino investimenti immobiliari». Secondo i due Musso - «c'è una corsa ad accaparrarsi metri quadri di porto che evidentemente hanno un valore, ma che poi non vengono utilizzati per nuovi traffici».
Eugenio Musso ha spiegato che l'ente portuale ha confermato la sua intenzione di effettuare tali verifiche, ma ha precisato però che nel frattempo è costretto ad assegnare la gara del Multipurpose. «L'Autorità Portuale - ha accusato Costanza Musso - non deve fare solo il notaio». La critica del gruppo Grendi nei confronti dell'Autorità Portuale è di non aver verificato i piani di impresa prima di assegnare il terminal: se «prima avesse monitorato e poi assegnato - secondo Grendi - si sarebbe accorta che coloro a cui assegna un nuovo terminal nel porto di Genova sono gli stessi che non riescono a rispettare i piani di impresa dei loro vecchi terminal. È come se una banca prima erogasse un finanziamento, e solo dopo averlo erogato andasse a verificare se il beneficiario è stato puntuale nei pagamenti precedenti».
L'accusa - pesante - è di non sapere o volere gestire al meglio aree portuali tra le più remunerative d'Italia. La resa media delle aree - ha spiegato Costanza Musso - è ad esempio di 4 container teu al metro quadro nel porto della Spezia, mentre a Genova è di soli 1,2 teu al metro quadro (1,4 teu prima della crisi). I Musso hanno sottolineato come invece, proprio per la natura del suo traffico costituito da una linea di cabotaggio di cui controlla tutta la catena logistica, il gruppo Grendi sia in grado di fare numeri significativi in aree di ridotte dimensioni con rese a metro quadro che sono almeno doppie (2,6 teu), ma in alcuni periodi anche quadruple (4,4 teu a metro quadro a Calata Ignazio Inglese nel 2008 in un terminal di 18.000 metri quadri) rispetto alle attuali rese del porto di Genova. Hanno anche ricordato che Grendi negli anni della crisi, con una concessione a Genova la cui durata massima è stata di quattro mesi, ha continuato a far crescere traffici (+27% dal 2007 al 2010), investimenti (33 milioni di investimenti nel business nello stesso periodo) ed occupazione (+30% sempre nello stesso periodo).
La possibilità che Grendi chiuda i battenti a Genova è prossima. «Dal 16 giugno - ha confermato Eugenio Musso - potrebbero arrivare le Fiamme Gialle a sequestrare tutto». Sinora il gruppo non è riuscito a trovare aree alternative dentro e fuori il porto di Genova, anche in considerazione della difficoltà di reperire spazi da gestire direttamente come azienda terminalista: «noi - ha spiegato Costanza Musso - non possiamo essere clienti. Con una sola linea dobbiamo controllare sia lo scalo di partenza che lo scalo di arrivo».
Il rischio è anche - hanno evidenziato Costanza ed Eugenio Musso - che il traffico merci con la Sardegna, già prevalentemente gravitante su Livorno, si trasferisca totalmente sul porto toscano in mancanza di un'alternativa affidabile nel porto di Genova.
Due mesi fa il TAR Liguria aveva respinto i ricorsi presentati dai gruppi Grendi e Spinelli contro l'assegnazione del Multipurpose alla cordata Messina-Gavio ( del 22 aprile 2011). Costanza ed Eugenio Musso hanno confermato che la loro azienda non ha ancora presentato ricorso contro questa sentenza presso il Consiglio di Stato.
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